Devota come ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per colline d’oblio,

su acutissime làmine

in bianca maglia d’ortiche,
ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…

La neve era sospesa tra la notte e le strade
come il destino tra la mano e il fiore.

In un suono soave
di campane diletto sei venuto…
Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.
O tenera tempesta
notturna, volto umano!

(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,
stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).

Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.

Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate dai sassi...

O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:

«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta».

Amore, oggi il tuo nome
al mio labbro è sfuggito
come al piede l’ultimo gradino...

ora è sparsa l’acqua della vita
e tutta la lunga scala
è da ricominciare.

T’ho barattato, amore, con parole.

Buio miele che odori
dentro diafani vasi
sotto mille e seicento anni di lava – 

ti riconoscerò dall’immortale
silenzio.

 

(da La Tigre Assenza, Adelphi, 1991)

Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.

Trema l’ultimo canto nelle altane
dove sole era l’ombra e ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.

E mentre indugia tiepida la rosa
l’amara bacca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.

Ora che capovolta è la clessidra,
che l’avvenire, questo caldo sole,
già mi sorge alle spalle, con gli uccelli
ritornerò senza dolore
a Bellosguardo: là posai la gola
su verdi ghigliottine di cancelli
e di un eterno rosa
vibravano le mani, denudate di fiori.

Oscillante tra il fuoco degli uliveti,
brillava Ottobre antico, nuovo amore.
Muta, affilavo il cuore
al taglio di impensabili aquiloni
(già prossimi, già nostri, già lontani):
aeree bare, tumuli nevosi
del mio domani giovane, del sole.

E’ rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…

Rimasta è la carezza che non trovo
più se non tra due sonni, l’infinita
mia sapienza in frantumi. E tu parola
che tramutavi il sangue in lacrime.

Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi…

Torno sola…
tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli

nella mia lieve tunica di fuoco.

Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere,
inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa;
ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni,
riconduca la vita a mezzanotte.

E la mia valle rosata dagli uliveti
e la città intricata dei miei amori
siano richiuse come breve palmo,
il mio palmo segnato da tutte le mie morti.

O Medio Oriente disteso dalla sua voce,
voglio destarmi sulla via di Damasco –
né mai lo sguardo aver levato a un cielo
altro dal suo, da tanta gioia in croce.

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