Nello spettacolo le seguenti poesie sono interpretate a memoria

 

   Meriggiare

 

 

Meriggiare pallido e assorto 

presso un rovente muro d’orto, 

ascoltare tra i pruni e gli sterpi 

schiocchi di merli, frusci di serpi. 

 

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche

ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano

a sommo di minuscole biche.

 

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare

mentre si levano tremuli scricchi

di cicale dai calvi picchi.

 

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com’è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

 

       

                                      ( Ossi di seppia )

 

 

NON CHIEDERCI LA PAROLA

 

 

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

 

                           

                                       (Ossi di seppia)

 

 

In Limine

 

 

Godi se il vento ch' entra nel pomario

vi rimena l'ondata della vita:

qui dove affonda un morto

viluppo di memorie,

orto non era, ma reliquario. 

 

Il frullo che tu senti non è un volo,

ma il commuoversi dell'eterno grembo;

vedi che si trasforma questo lembo

di terra solitario in un crogiuolo. 

 

Un rovello è di qua dall'erto muro.

Se procedi t' imbatti

tu forse nel fantasma che ti salva:

si compongono qui le storie, gli atti

scancellati pel giuoco del futuro. 

 

Cerca una maglia rotta nella rete

che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!

Va, per te l'ho pregato, - ora la sete

mi sarà lieve, meno acre la ruggine...

 

                                   

                                (Ossi di seppia)

 

 

Spesso il male di vivere

 

 

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

 

 

                                              (Ossi di seppia)

 

         Cigola la carrucola del pozzo

 

 

 

Cigola la carrucola del pozzo

l'acqua sale alla luce e vi si fonde.

Trema un ricordo nel ricolmo secchio,

nel puro cerchio un'immagine ride.

Accosto il volto a evanescenti labbri:

si deforma il passato, si fa vecchio,

appartiene ad un altro...

Ah che già stride

la ruota, ti ridona all'atro fondo,

visione, una distanza ci divide.

 

 

                      (Ossi di seppia)

 

Mia vita 

 

 

Mia vita, a te non chiedo lineamenti 

fissi, volti plausibili o possessi. 

Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso 

sapore han miele e assenzio.

 

Il cuore che ogni moto tiene a vile 

raro è squassato da trasalimenti. 

Così suona talvolta nel silenzio 

della campagna un colpo di fucile. 

 

 

                          (Ossi di seppia)

  

Non Recidere forbice quel volto

  

Non recidere, forbice, quel volto,

solo nella memoria che si sfolla,

non far del grande suo viso in ascolto

la mia nebbia di sempre.

 

Un freddo cala... Duro il colpo svetta.

E l'acacia ferita da sé scrolla

il guscio di cicala

nella prima belletta di Novembre.

 

 

                            (Le occasioni)

 

 

Riviere,

 

bastano pochi stocchi d'erbaspada
penduli da un ciglione
sul delirio del mare;
o due camelie pallide
nei giardini deserti,
e un eucalipto biondo che si tuffi
tra sfrusci e pazzi voli
nella luce;
ed ecco che in un attimo
invisibili fili a me si asserpano,
farfalla in una ragna
di fremiti d'olivi, di sguardi di girasoli.

Dolce cattività, oggi, riviere
di chi s'arrende per poco
come a rivivere un antico giuoco
non mai dimenticato.
Rammento l'acre filtro che porgeste
allo smarrito adolescente, o rive:
nelle chiare mattine si fondevano
dorsi di colli e cielo; sulla rena
dei lidi era un risucchio ampio, un eguale
fremer di vite,
una febbre del mondo; ed ogni cosa
in se stessa pareva consumarsi.

Oh allora sballottati
come l'osso di seppia dalle ondate
svanire a poco a poco;
diventare
un albero rugoso od una pietra
levigata dal mare; nei colori
fondersi dei tramonti; sparir carne
per spicciare sorgente ebbra di sole,
dal sole divorata…
                        Erano questi,
riviere, i voti del fanciullo antico
che accanto ad una rósa balaustrata
lentamente moriva sorridendo.

Quanto, marine, queste fredde luci
parlano a chi straziato vi fuggiva.
Lame d'acqua scoprentisi tra varchi
di labili ramure; rocce brune
tra spumeggi; frecciare di rondoni
vagabondi…
                Ah, potevo
credervi un giorno, o terre,
bellezze funerarie, auree cornici
all'agonia d'ogni essere.
                  

Oggi torno
a voi più forte, o è inganno, ben che il cuore
par sciogliersi in ricordi lieti - e atroci.
Triste anima passata
e tu volontà nuova che mi chiami,
tempo è forse d'unirvi
in un porto sereno di saggezza.
Ed un giorno sarà ancora l'invito
di voci d'oro, di lusinghe audaci,
anima mia non più divisa. Pensa:
cangiare in inno l'elegia; rifarsi;
non mancar più.
Potere
simili a questi rami
ieri scarniti e nudi ed oggi pieni
di fremiti e di linfe,
sentire
noi pur domani tra i profumi e i venti
un riaffluir di sogni, un urger folle
di voci verso un esito; e nel sole
che v'investe, riviere,
rifiorire!


                               (Ossi di seppia)

 

 

I limoni

 

 

Ascoltami, i poeti laureati

si muovono soltanto fra le piante

dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.

lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi

fossi dove in pozzanghere

mezzo seccate agguantano i ragazzi

qualche sparuta anguilla:

le viuzze che seguono i ciglioni,

discendono tra i ciuffi delle canne

e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

 

Meglio se le gazzarre degli uccelli

si spengono inghiottite dall'azzurro:

più chiaro si ascolta il susurro

dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,

e i sensi di quest'odore

che non sa staccarsi da terra

e piove in petto una dolcezza inquieta.

Qui delle divertite passioni

per miracolo tace la guerra,

qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza

ed è l'odore dei limoni.

 

Vedi, in questi silenzi in cui le cose

s'abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto,

talora ci si aspetta

di scoprire uno sbaglio di Natura,

il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

nel mezzo di una verità.

Lo sguardo fruga d'intorno,

la mente indaga accorda disunisce

nel profumo che dilaga

quando il giorno piú languisce.

Sono i silenzi in cui si vede

in ogni ombra umana che si allontana

qualche disturbata Divinità.

 

 Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo

nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra

soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.

La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta

il tedio dell'inverno sulle case,

la luce si fa avara - amara l'anima.

Quando un giorno da un malchiuso portone

tra gli alberi di una corte

ci si mostrano i gialli dei limoni;

e il gelo del cuore si sfa,

e in petto ci scrosciano

le loro canzoni

le trombe d'oro della solarità.

 

 

                         (Ossi di seppia)

 

 

 

 

LE STAGIONI

 

 

Il mio sogno non è nelle quattro stagioni.

 

Non  nell’inverno

che spinge accanto a stanchi termosifoni

e spruzza di ghiaccioli i capelli già grigi.

e non nei falò accesi, nelle periferie

dalle pandemie erranti, non nel fumo

d’averno che lambisce i cornicioni

e neppure nell’albero di Natale

che sopravvive, forse, solo nelle prigioni.

 

Il mio sogno non è nella primavera

L’età di cui ci parlano antichi tabulari,

e non nelle ramaglie che stentano a mettere piume,

e non nel tinnulo  strido della marmotta

quando s’affaccia dal suo buco,

e neanche  nello schiudersi delle osterie e dei crotti

nell’illusione che ormai più non piova

o pioverà forse altrove, chissà dove.

 

Il mio sogno non è nell’estate

nevrotica di falsi miraggi e lunazioni

di malaugurio, non nel reticolato

del tramaglio squarciato dai delfini,

non nei barbagli afosi dei suoi mattini,

e non nelle subacquee peregrinazioni

di chi affonda con sé e col suo passato.

 

Il mio sogno non è nell’autunno

fumicoso, avvinato, rinvenibile

solo nei calendari o nelle fiere

dei barbanera, non nelle sue nere

fulminee sere,  nelle processioni

vendemmiali o liturgiche, non nel grido dei pavoni

nel giro dei frantoi,  nell’intasarsi

della larva e del ghiro.

 

Il mio sogno non sorge mai dal grembo

delle stagioni, ma nell’intemporaneo

che vive dove muoiono le ragioni

e Dio sa s’era tempo; o s’era inutile.

 

 

                                       (Satura II)

 

 

 

La casa dei doganieri

 

 

Tu non ricordi la casa dei doganieri

sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:

desolata t’attende dalla sera

in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri

e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura

e il suono del tuo riso non è più lieto:

la bussola va impazzita all’avventura

e il calcolo dei dadi più non torna.

Tu non ricordi; altro tempo frastorna

la tua memoria; un filo s’addipana.

 

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana

la casa e in cima al tetto la banderuola

affumicata gira senza pietà.

Ne tengo un capo; ma tu resti sola

né qui respiri nell’oscurità.

 

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende

rara la luce della petroliera!

Il varco è qui? (Ripullula il frangente

ancora sulla balza che scoscende ...)

Tu non ricordi la casa di questa

mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

 

 

                                         (Le occasioni)

 

                                        

 

 

 

 

Gli uomini che si voltano

 

 

Probabilmente

non sei più chi sei stata

ed è giusto che cosí sia.

Hai raschiato a dovere la carta a vetro

e su noi ogni linea si assottiglia.

Pure qualcosa fu scritto

sui fogli della nostra vita.

Metterli controluce è ingigantire quel segno,

formare un geroglifico più grande del diadema

che ti abbagliava.

Non apparirai più dal portello

dell'aliscafo o da fondali d'alghe,

sommozzatrice di fangose rapide

per dare un senso al nulla. Scenderai

sulle scale automatiche dei templi di Mercurio

tra cadaveri in maschera,

tu la sola vivente,

e non ti chiederai

se fu inganno, fu scelta, fu comunicazione

e chi di noi fosse il centro

a cui si tira con l'arco dal baraccone.

Non me lo chiedo neanch'io. Sono colui

che ha veduto un istante e tanto basta

a chi cammina incolonnato come ora

avviene a noi se siamo ancora in vita

o era un inganno crederlo. Si slitta.

 

 

                                      (Satura II)

 

                       

 

DORA MARKUS

 


Fu dove il ponte di legno

mette a Porto Corsini sul mare alto

e rari uomini, quasi immoti, affondano

o salpano le reti. Con un segno

della mano additavi all'altra sponda

invisibile la tua patria vera.

Poi seguimmo il canale fino alla darsena

della città, lucida di fuliggine,

nella bassura dove s'affondava

una primavera inerte, senza memoria.

 

E qui dove un'antica vita

si screzia in una dolce

ansietà d'Oriente,

le tue parole iridavano come le scaglie

della triglia moribonda.


La tua irrequietudine mi fa pensare

agli uccelli di passo che urtano ai fari

nelle sere tempestose:

è una tempesta anche la tua dolcezza,

turbina e non appare.

E i suoi riposi sono anche più rari.

Non so come stremata tu resisti

in quel lago

d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse

ti salva un amuleto che tu tieni

vicino alla matita delle labbra,

al piumino, alla lima: un topo bianco

d'avorio; e così esisti!

 

Ormai nella tua Carinzia

di mirti fioriti e di stagni,

china sul bordo sorvegli

la carpa che timida abbocca

o segui sui tigli, tra gl'irti

pinnacoli le accensioni

del vespro e nell'acque un avvampo

di tende da scali e pensioni.


La sera che si protende

sull'umida conca non porta

col palpito dei motori

che gemiti d'oche e un interno

di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide

diversa una storia di errori

imperturbati e la incide

dove la spugna non giunge.


La tua leggenda, Dora!

Ma è scritta già in quegli sguardi

di uomini che hanno fedine

altere e deboli in grandi

ritratti d'oro e ritorna

ad ogni accordo che esprime

l'armonica guasta nell'ora

che abbuia, sempre più tardi.


È scritta là. Il sempreverde

alloro per la cucina

resiste, la voce non muta,

Ravenna è lontana, distilla

veleno una fede feroce.

Che vuole da te? Non si cede

voce, leggenda o destino.

Ma è tardi, sempre più tardi.

 

 

                            (Le occasioni)

               

 

 

Ex  voto

 

Accade che le affinità d'anima

non giungano ai gesti e alle parole ma

rimangano effuse come un magnetismo.

É raro ma accade. Può darsi

che sia vera soltanto la lontananza,

vero l'oblio, vera la foglia secca

più del fresco germoglio.

Tanto e altro può darsi o dirsi.

Comprendo la tua caparbia volontà di

essere sempre assente perché

solo così si manifesta la tua magia.

Innumeri le astuzie che intendo.

Insisto nel ricercarti nel fuscello

e mai nell'albero spiegato, mai nel pieno,

sempre nel vuoto: in quello che

anche al trapano resiste.

Era o non era la volontà dei numi

che presidiano il tuo lontano focolare,

strani multiformi multanimi animali domestici;

fors'era così come mi pareva

o non era. Ignoro se

la mia inesistenza appaga il tuo destino,

se la tua colma il mio che ne trabocca,

se l'innocenza é una colpa oppure

si coglie sulla soglia dei tuoi lari.

Di me, di te tutto conosco,

tutto ignoro.

                                         

 

                                  (Le occasioni)

 

    Casa sul Mare

 

ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l'anima che non sa più dare un grido.
Ora I minuti sono eguali e fissi
come I giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d'acqua che rimbomba.
Un altro, altr'acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l'isole dell'aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell'ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s'appressa
l'ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s'infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A' nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.
Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m'ode
salpa già forse per l'eterno

 

 

                                    (Ossi di seppia)

 

   

   FORSE UN MATTINO

 

 

      Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
      arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
      il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
      di me, con un terrore di ubriaco.

      Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
      alberi case colli per l'inganno consueto.
      Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
      tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

 

 

                                           

                                              (Ossi di seppia)

 

  

      

 

 

 

Portami il girasole

  

 

Portami il girasole ch'io lo trapianti

nel mio terreno bruciato dal salino,

e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti

del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

 

Tendono alla chiarità le cose oscure,

si esauriscono i corpi in un fluire

di tinte: queste in musiche. Svanire

è dunque la ventura delle venture.

 

Portami tu la pianta che conduce

dove sorgono bionde trasparenze

e vapora la vita quale essenza;

portami il girasole impazzito di luce.

 

                                                                       

         

                                                                 (Ossi di seppia)

 Omelia del cardinale Carlo Maria

Martini in occasione del funerale di Eugenio

Montale (14 settembre 1981)

  

 

Dice il Vangelo che, stando Gesù per morire, il

sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra per

circa tre ore. Qualcosa di questo buio doloroso

che copre la terra e ci impedisce quasi di parlare,

noi torniamo a esperimentarlo ogni volta che una

voce a noi cara, che ha detto nel mondo parole

che interpretavano i nostri pensieri, si spegne nel

sonno della morte.

Eugenio Montale, per cui noi qui facciamo lutto e

preghiera, è stato uno di questi uomini, in cui si è

riconosciuta tanta parte di noi, della nostra

inquietudine e della nostra ricerca. Perché egli ha

avuto il dono di scavare a fondo nella vita

dell’uomo, di esprimere cose che ciascuno sente

dentro, ma non riesce a dire, perché le parole

quotidiane sono troppo povere.

“L’argomento della mia poesia” egli affermava “è la

condizione umana in sé considerata, non questo o

quello avvenimento storico. Ciò non vuol dire

estraniarsi da quanto avviene nel mondo, significa

solo coscienza e volontà  di non scambiare

l’essenziale col transitorio.”

In questo momento doloroso, in cui il transitorio è

davvero passato, volato via, e solo l’essenziale

resta, in questo momento in cui il poeta ha

realizzato quel suo “me ne andrò zitto, tra gli

uomini che non si voltano, col mio segreto”,

salgono in noi tanti interrogativi rispetto a questo

essenziale, rispetto al suo “segreto”.

Credo che noi siamo chiamati qui, in questo

momento, a rispettare questo segreto, ad

accogliere questo essenziale nella sua totalità 

senza volerlo precisare, accontentandoci di quei

segni di speranza e anche di preghiera che egli ci

ha offerto....

... il buio della morte di Gesù non è durato per

sempre...

... Anche Montale è vivo, e non soltanto nel soffio

ispiratore della sua poesia e nel rigore morale di

cui ci ha lasciato l’esempio.

I credenti sanno che la certezza della vita

annunciata da questo Vangelo non è solo cosa del

passato, ma vale per ogni uomo, e che neppure la

morte ferma il cammino di chi ha cercato con

amore la verità, e, pur disperando talora di

trovarla, non si è arreso in questa ricerca.

“Volendo” egli diceva “vivere con dignità  di fronte a

se stesso, nella speranza che la vita abbia un

senso che razionalmente ci sfugge, ma che vale la

pena di sperimentare, e di vivere...” Perchè, come

egli ancora ci ha detto, “tutte le immagini portano

scritto:più in là”.

Ora gli siamo accanto, lo sentiamo “balzato fuori,

più in là ”, sfuggito attraverso “la maglia rotta” da lui

ansiosamente cercata nella “rete che ci stringe”... 

 
FINALE DELLO SPETTACOLO 
 
 
Our revels now are ended. These our actors,

As I foretold you, were all spirits, and

Are melted into air, into thin air:

And like the baseless fabric of this vision,

The cloud-capp’d tow’rs, the gorgeous palaces,

The solemn temples, the great globe itself,

Yea, all which it inherit, shall dissolve,

And, like this insubstantial pageant faded,

Leave not a rack behind. We are such stuff

As dreams are made on; and our little life

Is rounded with a sleep.

 

                                                W. Shakespeare, The Tempest

 

 

 

"Questo nostro spettacolo è finito.

Questi nostri attori erano tutti spiriti

e si sono dissolti nell' aria, nell'aria sottile;

e come l'edificio senza fondamenta,

di questa visione , le torri ricoperte dalle nubi,

i palazzi sontuosi, i templi solenni,

questo stesso vasto globo  si,

e quello che contiene

tutto si dissolverà ; come la scena priva di sostanza

ora svanita , tutto svanira’

senza lasciare traccia.

 Noi siamo della  materia di cui sono fatti i sogni

e la nostra piccola vita e’ circondata da un sonno. “

 

                                               

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