I NASCONDIGLI

 

Quando non sono certo di essere vivo

la certezza è a due passi ma costa pena

ritrovarli gli oggetti, una pipa, il cagnuccio

di legno di mia moglie, un necrologio

del fratello di lei, tre o quattro occhiali

di lei ancora!, un tappo di bottiglia

che colpì la sua fronte in un lontano

cottillon di capodanno a Sils Maria

e altre carabattole. Mutano alloggio, entrano

nei buchi più nascosti, ad ogni ora

hanno rischiato il secchio della spazzatura.

Complottando tra loro si sono organizzati

per sostenermi, sanno più di me

il filo che li lega a chi vorrebbe

e non osa disfarsene. Più prossimo

negli anni il Gubelin automatico tenta

di aggregarvisi, sempre rifiutato.

Lo comprammo a Lucerna e lei disse

piove troppo a Lucerna non funzionerà mai

E infatti…

 

“Le carabattole”, di Eugenio Montale

Diario del ’71-’72 è una delle ultime raccolte di Eugenio Montale che continua in qualche modo la linea poetica di “Satura”; assume toni più attenuati, lievi, sussurrati come segreti ma non abbandona l’ ironia e la parodia. Oscillando tra pessimismo e ottimismo il poeta vuole confrontarsi con il linguaggio della cultura contemporanea; percepisce una società che trascina come un vortice, dove tutto è deciso da ingranaggi incontrollabili e prestabiliti. L’unica forma di comunicazione e di sopravvivenza nella società di massa che sempre più sembra trasformarsi in una trappola, rimane la poesia; eppure diventa impossibile muoversi perché il mondo ha subito una «decozione/di tutto in tutto» e «vede il trionfo della spazzatura». Il poeta allora decide per un «rispettabile prendere le distanze» che rappresenta il fuggire da un presente che sembra non avere più nulla da dare, ma l’unico modo possibile che gli consente di osservare i movimenti, i gesti, i rumori e le voci di una vita oramai artificiale e lontana.

Eppure, nonostante tutto, la poesia non gli garantisce più nessuna salvezza, anche la Musa è stata sporcata dalla lordura e dalla degradazione. Cerca di fissare alla pagina il vuoto, quella percezione di mancanza che travolge il suo tempo. Guarda, osserva e dissacra tutto cioè che è condizionato, illusorio, ogni tentativo di persuasione e di convincimento fallace e grigio; nel piatto modernismo che avanza, le esistenze si susseguono senz’anima, l’umanità pensa e cammina tutta allo stesso modo, è fatta in serie e tutto ciò in cui crede è insensato e senza fede colorato da scialbi e inefficaci dogmi di poca verità. In questa crisi senza freni dove il crollo e la decadenza sono l’unica certezza si affaccia in questa poesia il tema della morte, che si colora di tinte inusuali e fosche.

Il poeta percepisce l’intera umanità come un mondo di morti-viventi o di viventi-morti: «chi sta sul trampolino/è ancora morto,morto chi ritorna»; sembra non esserci davvero più speranza quando scrive che «tutti siamo già morti senza saperlo». L’insopportabile peso della realtà che non ha più spessore sembra travolgere ogni piega dell’esistenza, gli oggetti, i luoghi, i ricordi, il tempo stesso. Eppure in questo pessimismo venato di esistenzialismo e metafisica c’è un luogo nascosto, segreto, che custodisce e immortala la vera sofferenza di Montale. Ed è proprio Nascondigli il titolo della poesia in cui Montale sussurra il suo dolore, il suo dispiacere; dedicata alla moglie, Drusilla Tanzi, morta nel 1963, affettuosamente soprannominata Mosca per lo spessore dei suoi occhiali. In questi versi assistiamo quasi ad una confessione: la quotidianità è difficile da vivere, rimbalza tra gli oggetti cari, e fa stringere il cuore:

(Quando non sono certo di essere vivo la certezza è a due passi ma costa pena ritrovarli gli oggetti, una pipa, il cagnuccio di legno di mia moglie, un necrologio del fratello di lei, tre o quattro occhiali di lei ancora!, un tappo di bottiglia che colpì la sua fronte in un lontano cotillon di capodanno a Sils Maria e altre carabattole. Mutano alloggio, entrano nei buchi più nascosti, ad ogni ora hanno rischiato il secchio della spazzatura. Complottando tra loro si sono organizzate per sostenermi, sanno più di me il filo che le lega a chi vorrebbe e non osa disfarsene. Più prossimo negli anni il Gubelin automatico tenta di aggregarvisi, sempre rifiutato. Lo comprammo a Lucerna e lei disse piove troppo a Lucerna non funzionerà mai. E infatti…)

Immerso nelle carabattole, “Ossi di seppia” che ancora invadono il suo cammino, Montale è circondato dagli oggetti che gli ricordano la sua Mosca; sono lì, feticci insostituibili di un’esistenza che non c’è più; occhiali che non potranno più vedere, un necrologio che non potrà mai essere letto, un tappo di bottiglia che non colpirà più nessuna fronte; oggetti che complottano per tenere vivo il filo della memoria, amati ed odiati che rischiano di essere buttati via; si nascondono, si negano, si manifestano, sono come la memoria che nonostante faccia male non può essere cancellata. E poi infine appare l’oggetto più prezioso di tutti, un vecchio orologio, imponente simbolo della vita e della morte. Questa volta il tempo si è fermato per il nostro poeta, il Gubelin automatico, ricordo adorato e melanconico, non funziona più; forse si è fermato proprio lì a Lucerna, e ha smesso di funzionare, dispettoso, molesto quasi a ricordargli un tempo che non potrà più tornare.

cottillon di capodanno a Sils Maria

e altre carabattole. Mutano alloggio, entrano

nei buchi più nascosti, ad ogni ora

hanno rischiato il secchio della spazzatura.

Complottando tra loro si sono organizzati

per sostenermi, sanno più di me

il filo che li lega a chi vorrebbe

e non osa disfarsene. Più prossimo

negli anni il Gubelin automatico tenta

di aggregarvisi, sempre rifiutato.

Lo comprammo a Lucerna e lei disse

piove troppo a Lucerna non funzionerà mai

E infatti…

“Le carabattole”, di Eugenio Montale

Diario del ’71-’72 è una delle ultime raccolte di Eugenio Montale che continua in qualche modo la linea poetica di “Satura”; assume toni più attenuati, lievi, sussurrati come segreti ma non abbandona l’ ironia e la parodia. Oscillando tra pessimismo e ottimismo il poeta vuole confrontarsi con il linguaggio della cultura contemporanea; percepisce una società che trascina come un vortice, dove tutto è deciso da ingranaggi incontrollabili e prestabiliti. L’unica forma di comunicazione e di sopravvivenza nella società di massa che sempre più sembra trasformarsi in una trappola, rimane la poesia; eppure diventa impossibile muoversi perché il mondo ha subito una «decozione/di tutto in tutto» e «vede il trionfo della spazzatura». Il poeta allora decide per un «rispettabile prendere le distanze» che rappresenta il fuggire da un presente che sembra non avere più nulla da dare, ma l’unico modo possibile che gli consente di osservare i movimenti, i gesti, i rumori e le voci di una vita oramai artificiale e lontana.

Eppure, nonostante tutto, la poesia non gli garantisce più nessuna salvezza, anche la Musa è stata sporcata dalla lordura e dalla degradazione. Cerca di fissare alla pagina il vuoto, quella percezione di mancanza che travolge il suo tempo. Guarda, osserva e dissacra tutto cioè che è condizionato, illusorio, ogni tentativo di persuasione e di convincimento fallace e grigio; nel piatto modernismo che avanza, le esistenze si susseguono senz’anima, l’umanità pensa e cammina tutta allo stesso modo, è fatta in serie e tutto ciò in cui crede è insensato e senza fede colorato da scialbi e inefficaci dogmi di poca verità. In questa crisi senza freni dove il crollo e la decadenza sono l’unica certezza si affaccia in questa poesia il tema della morte, che si colora di tinte inusuali e fosche.

Il poeta percepisce l’intera umanità come un mondo di morti-viventi o di viventi-morti: «chi sta sul trampolino/è ancora morto,morto chi ritorna»; sembra non esserci davvero più speranza quando scrive che «tutti siamo già morti senza saperlo». L’insopportabile peso della realtà che non ha più spessore sembra travolgere ogni piega dell’esistenza, gli oggetti, i luoghi, i ricordi, il tempo stesso. Eppure in questo pessimismo venato di esistenzialismo e metafisica c’è un luogo nascosto, segreto, che custodisce e immortala la vera sofferenza di Montale. Ed è proprio Nascondigli il titolo della poesia in cui Montale sussurra il suo dolore, il suo dispiacere; dedicata alla moglie, Drusilla Tanzi, morta nel 1963, affettuosamente soprannominata Mosca per lo spessore dei suoi occhiali. In questi versi assistiamo quasi ad una confessione: la quotidianità è difficile da vivere, rimbalza tra gli oggetti cari, e fa stringere il cuore:

(Quando non sono certo di essere vivo la certezza è a due passi ma costa pena ritrovarli gli oggetti, una pipa, il cagnuccio di legno di mia moglie, un necrologio del fratello di lei, tre o quattro occhiali di lei ancora!, un tappo di bottiglia che colpì la sua fronte in un lontano cotillon di capodanno a Sils Maria e altre carabattole. Mutano alloggio, entrano nei buchi più nascosti, ad ogni ora hanno rischiato il secchio della spazzatura. Complottando tra loro si sono organizzate per sostenermi, sanno più di me il filo che le lega a chi vorrebbe e non osa disfarsene. Più prossimo negli anni il Gubelin automatico tenta di aggregarvisi, sempre rifiutato. Lo comprammo a Lucerna e lei disse piove troppo a Lucerna non funzionerà mai. E infatti…)

Immerso nelle carabattole, “Ossi di seppia” che ancora invadono il suo cammino, Montale è circondato dagli oggetti che gli ricordano la sua Mosca; sono lì, feticci insostituibili di un’esistenza che non c’è più; occhiali che non potranno più vedere, un necrologio che non potrà mai essere letto, un tappo di bottiglia che non colpirà più nessuna fronte; oggetti che complottano per tenere vivo il filo della memoria, amati ed odiati che rischiano di essere buttati via; si nascondono, si negano, si manifestano, sono come la memoria che nonostante faccia male non può essere cancellata. E poi infine appare l’oggetto più prezioso di tutti, un vecchio orologio, imponente simbolo della vita e della morte. Questa volta il tempo si è fermato per il nostro poeta, il Gubelin automatico, ricordo adorato e melanconico, non funziona più; forse si è fermato proprio lì a Lucerna, e ha smesso di funzionare, dispettoso, molesto quasi a ricordargli un tempo che non potrà più tornare.

 

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