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Ci hanno detto che una nostalgia del seme
ci riporterà nelle braccia delle madri
uguali al primo vagito, nudi fino al midollo, scorticati,
vivi fino all’ustione, ci hanno detto che le aquile
torneranno a prenderci sotto l’ala spezzata,
tentati dallo svanire, dalla pace dei relitti
non avremo piume per il volo, ogni cosa
decolla e poi cade nella grazia dello stare,
ogni crepa che fiorisce come brilla e dimentica ogni male,
come striscia questa febbre questo ardore di volare
questo schianto verso tutto ciò che non ha nome,
ci hanno detto che ogni andare ritorna
nel suo centro primordiale, al primo coccio,
alla prima cellula animale, schegge verso il fuoco,
verso il nucleo glaciale di ogni era.
A Gilda, rinata oggi un anno fa in un Altrove
Quanto siamo transitori. Da un buio
verso un altro, piccoli graffi di luce.
Ferite che brillano, schegge nell’aria.
Braccati, con le fiaccole spente
dal vento. Piccole scie. Di una parola
soltanto, dilla adesso, adesso che hai
un altro nome. Benedetto il tuo bacio,
benedetto il tuo fuoco, benedetti gli astri
del corpo, benedetto il grano nel capo,
benedette le mani, le braci negli occhi,
benedetto il tuo passo di neve, benedetto
ogni singolo soffio, ogni gioia che arde,
benedetto ogni sguardo lasciato, benedetta
ogni ora negli anni a venire, benedetto
il nome che hai ora, benedetto sia
tutto il creato celeste in cui voli,
benedetto il tuo amore che è sparso
nel cosmo, benedetta ogni fibra leggera,
ogni spina, ogni graffio, ogni fiamma
riaccesa, splendore di quarzo, miracolo
d’acqua, benedetto ogni seme gettato,
benedetti i germogli, il miracolo, il dono
di esserci stata.

Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro.

Penso ai morti del paese a cui non pensa
più nessuno. Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia. Benedico
i loro nomi, percepisco il loro sonno
come un ago, la mia notte
nella cruna della loro.

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