CENTRO ITALIANO DI POESIA 

( Eugenio Montale)

 

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Ecco vacilla il cielo, le stelle
Vive come capre tra i cespugli.
La primavera scuote il lezzo
Pungente dei pantani. Ogni cosa
È talmente sicura di esistere
Questa notte, in questo canto
Di vecchia rana ad Abbasanta.

 

Leonardo Sinisgalli

1941

Ora ad altre speranze ecco si leva
non veduta la luna
e il cieco sguardo mio di cruna in cruna
delle finestre mena

come a spente farfalle,
ed alle assurde mura
trasumanate come aperta valle
da un riflesso di luna.

E le attese e gli eventi
nell’alzato mio volto errano un poco
sostando e dubitando eguali al fioco
sospirare dei venti,

e in me è tutt’uno
l’animo e questo moto, incerto e bruno.

 

Carlo Betocchi

 

 

Foglie

 

Quanti se ne sono andati…
Quanti.
Che cosa resta.
Nemmeno
il soffio.
Nemmeno
il graffio di rancore o il morso
della presenza.
Tutti
se ne sono andati senza
lasciare traccia.
Come
non lascia traccia il vento
sul marmo dove passa.
Come
non lascia orma l’ombra
sul marciapiede.
Tutti
scomparsi in un polverio
confuso d’occhi.
Un brusio
di voci afone, quasi
di foglie controfiato
dietro i vetri.
Foglie
che solo il cuore vede
e cui la mente non crede.
 
Giorgio Caproni

 

 
Oggi è l’Epifania. Di che cosa?
Io non sono mai stata così sola.
Anche l’angelo tace. Tu da un mese,
angelo rinnegato.
La vita è un filo rosso. Ci attraversa
da alfa e omèga il battito del cuore.
Per tessere che cosa? Inutilmente
il filo cerca la sua cruna.
 
Maria Luisa Spaziani
da La traversata dell'oasi, Mondadori, 2002

                                             Il primo gennaio

 

So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto.
So che si può esistere
non vivendo,
con radici strappate da ogni vento
se anche non muove foglia e non un soffio increspa
l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.
So che non c’è magia
di filtro o d’infusione
che possano spiegare come di te s’azzufino
dita e capelli, come il tuo riso esploda
nel suo ringraziamento
al minuscolo dio a cui ti affidi,
d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
So che mai ti sei posta
il come – il dove – il perché,
pigramente rassegnata al non importa,
al non so quando o quanto, assorta in un oscuro
germinale di larve e arborescenze.
So che quello che afferri,
oggetto o mano, penna o portacenere,
brucia e non se n’accorge,
né te n’avvedi tu animale innocente
inconsapevole
di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra
e una sostanza, un raggio che si oscura.
So che si può vivere
nel fuochetto di paglia dell’emulazione
senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato
da Chi volle tu fossi…e se ne pentì.
Ora,
uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
lo scheletro dell’albero di Natale,
ti accompagna in sordina il mangianastri,
torni indietro, allo specchio ti dispiaci,
ti getti a terra, con lo straccio scrosti
dal pavimento le orme degli intrusi.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perché gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa.

 

(da Satura - Mondadori Editore 1971)

 

 

 

FELIZ NAVIDAD

Natale


Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

Pittore Lombardo del XVII secolo
Pittore Lombardo del XVII secolo

Che scherzo! 

 

E se poi venisse davvero?
Se a quell’ora precisa
mentre la nebbia oppure la pioggia nera
oppure comunque le caligini il fetido l’incubo nero
della notte sopra la pianura dell’umidità e dell’espansione economica
l’arcipelago delle luminarie
sempre più denso verso il centro
specialmente i cinema i bar le stazioni di servizio
e poi nel cuore della città
la massima concentrazione di luci
di lusso di soldi di gioia di vizio
se nei palazzi cascine falansteri
attraverso le illusioni e i misteri,
lui davvero venisse?
Che scherzo pericoloso, eh?

Perché dicono dicono ma
non ci crede più nessuno.
Il proprietario del magazzino famoso
di articoli da regalo
non ci crede, e ne ride bonario
con le clienti in visone
anche il negoziante di giocattoli
sollevato dall’andamento straordinario
degli affari nonostante la recessione.

Non ci crede il capofamiglia
né lo scapolo né il coniugato
né il vecchio zio né la figlia,
neppure la mamma sebbene
tenendoli sulle ginocchia
abbia dettato ai bambini le lettere
col presepio e il bordo dorato
destinazione Paradiso
in franchigia, senza riflettere
al rischio della mistificazione.

Non ci crede neanche don Saverio
il buon prevosto della parrocchia
non basta infatti la fede
per prendere veramente sul serio
questa antica superstizione.

E neppure ci credono i bambini
che avrebbero sufficiente ingenuità
voglia di miracoli, di fantasia
di mostri, di favole, ma
ci fu quel sorriso speciale
della mamma così ambiguo e allora
nacque in loro l’ipocrisia
per la prima volta, con la paura
tipicamente italiana
di passare per cretini.

Neanche loro dunque ci credono più
che alla mezzanotte del ventiquattro, carico di regali
in carte d’oro e d’argento
fra un grande sbattere d’ali
(ci saranno anche gli angeli, no?)
arriva il Bambino Gesù.

E se invece venisse per davvero?
Se la preghiera, la letterina, il desiderio
espresso così, più che altro per gioco
venisse preso sul serio?
Se il regno della fiaba e del mistero
si avverasse? Se accanto al fuoco
al mattino si trovassero i doni
la bambola il revolver il treno
il micio l’orsacchiotto il leone
che nessuno di voi ha comperati?
Se la vostra bella sicurezza
nella scienza e nella dea ragione
andasse a carte quarantotto?
Con imperdonabile leggerezza
forse troppo ci siamo fidati.

E se sul serio venisse?
Silenzio! O Gesù Bambino
per favore cammina piano
nell’attraversare il salotto
Guai se tu svegli i ragazzi,
che disastro sarebbe per noi
così colti così intelligenti
brevettati miscredenti
noi che ci crediamo chissà cosa
coi nostri atomi coi nostri razzi.
Fa’ piano, Bambino, se puoi.

 

Dino Buzzati

(1964)

Eri un roseto. Il fiato che si smorza

 

a mia madre

Eri un roseto. Il fiato che si smorza
fu il tuo dono più tuo, estrema rosa.
Chi scrisse su una tomba “qui riposa”
non sa dove comincia la tua forza.

Maria Luisa Spaziani (da Transito con catene, Mondadori, 1977) 

12 ottobre 1896 nasce Eugenio Montale

 

Eugenio Montale, autoritratto
Eugenio Montale, autoritratto

Sono venuto al mondo

Sono venuto al mondo in una stagione calma.
Molte porte si aprivano che ora si sono chiuse.
L’ Alma Mater dormiva. Chi ha deciso
di risvegliarla ?

Eppure
non furono così orrendi gli uragani del poi
se ancora si poteva andare, tenersi per mano,
riconoscersi.

E se non era facile muoversi tra gli eroi
della guerra, del vizio, della jattura,
essi avevano un viso, ora non c’è neppure
il modo di evitare le trappole. Sono troppe.

Le infinite chiusure e aperture
possono avere un senso per chi è dalla parte
che sola conta, del burattinaio.
Ma quello non domanda la collaborazione
di chi ignora i suoi fini e la sua arte.

E chi è da quella parte ? Se c’è, credo
che si annoi più di noi. Con altri occhi
ne vedremmo più d’uno passeggiare
tra noi con meno noia e più disgusto.

Satura II 

Dissipa tu se lo vuoi
questa debole vita che si lagna,
come la spugna il frego
effimero di una lavagna.
M’attendo di ritornare nel tuo circolo,
s’adempia lo sbandato mio passare.
La mia venuta era testimonianza
di un ordine che in viaggio mi scordai,
giurano fede queste mie parole
a un evento impossibile, e lo ignorano.
Ma sempre che tradii
la tua dolce risacca su le prode
sbigottimento mi prese
quale d’uno scemato di memoria
quando si risovviene del suo paese.
Presa la mia lezione
più che dalla tua gloria
aperta, dall’ansare
che quasi non dà suono
di qualche tuo meriggio desolato,
a te mi rendo in umiltà. Non sono
che favilla d’un tirso. Bene lo so: bruciare,
questo, non altro, è il mio significato.
 
Ossi di Seppia / Mediterraneo
 
 
Sotto un quadro lombardo
 
Era il 12 ottobre del '982
mio natalizio
quando duecentomila laureati
disoccupati
in mancanza di meglio occuparono
palazzo Madama. Sono disoccupato anch'io da sempre
obiettai a chi voleva malmenarmi.
Mi hanno buttato addosso un bianco accappatoio
e una cintura cremisina è vero
ma la mia giusta occupazione il bandolo
del Vero
non l'ho trovata mai e ingiustamente muoio
sotto i vostri bastoni,
neppure voi lo troverete amici.
Indossate anche voi l'accappatoio
e saremo uno in più 200.000 e uno.
Dopodiché crollai su una poltrona
che fronteggiava un quadro del Cremona
e restava tranquillo lui solo nel tumulto.
 
da Quaderno di quattro anni
Ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.
Ed era forse oltre il telo
l'azzurro tranquillo;
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.
0 vero c'era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d'un'ignita
zolla che mai vedrò.
Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l'ignoranza.
Se un'ombra scorgete, non è
un'ombra - ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono.
 
da Ossi di seppia
Ho tanta fede in te
 
Poesia al maschile: Eugenio Montale
Poesia al femminile: Antonia Pozzi
 
Ho tanta fede in te che durerà
(è la sciocchezza che ti dissi un giorno)
finché un lampo d’oltremondo distrugga
quell’immenso cascame in cui viviamo.
Ci troveremo allora in non so che punto
se ha un senso dire punto dove non è spazio
a discutere qualche verso controverso
del divino poema.
So che oltre il visibile e il tangibile
non è vita possibile ma l’oltrevita
è forse l’altra faccia della morte
che portammo rinchiusa in noi per anni e anni.
Ho tanta fede in me
e l’hai riaccesa tu senza volerlo
senza saperlo perché in ogni rottame
della vita di qui è un trabocchetto
di cui nulla sappiamo ed era forse
in attesa di noi spersi e incapaci
di dargli un senso.
Ho tanta fede che mi brucia; certo
chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere
senz’accorgersi ch’era una rinascita”
Eugenio Montale
 
..............
 
Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.
Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.
Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.
 
Antonia Pozzi (Confidare)
 
 
 
 

 

 
 

Mi accorgo inseguendo una oscura / sagoma di quanto tempo sprecato / la vita mi consegnò nascendo / più vivo degli altri umani, solo / e chiaro celeste in un terrestre mondo

 

Dario Bellezza

Autoritratti di Elsa Morante su uno dei quaderni manoscritti di Menzogna e sortilegio
Autoritratti di Elsa Morante su uno dei quaderni manoscritti di Menzogna e sortilegio

Lettera

Tutto quel che t’appartiene, o che da te proviene,
è ricco di una grazia favolosa:
perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime.
L’invidia mia riveste d’incanti straordinari
i miei rivali: essi vanno per vie negate ai mortali,
hanno cuore sapiente, cortesia d’angeli.
E le lagrime che mi fai piangere sono il mio bel diadema,
se l’amara mia stagione s’adorna del tuo sorriso.
Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri
e tanti voti da non sapere quale scegliere.
Ormai, se cade una stella a mezzo agosto,
se nel tramonto marino balena il raggio verde,
se a cena ho una primizia nella stagione nuova,
o m’inchino alla santa campagna dell’Elevazione,
non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome,
o parola che m’apri la porta del paradiso.
Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu,
le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate:
l’orgoglio si compiace d’umiliarsi a te,
la vanità si nasconde davanti alla tua gloria,
la voglia si tramuta in timido pudore,
la mia sconfitta esulta della tua vittoria,
la ricchezza è beata di farsi, per te, povera,
e peccato e perdono, ansia e riposo,
sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia.
Ma la frase celeste, che la mia mente ascolta,
io ridirti non so, non c’è nota o parola.
Ti dirò: tu sei tutto il mio bene, ad ogni ora
questa grazia di amarti m’è dolce compagnia.
Potesse il mio affetto consolarti come mi consola,
o tu che sei la sola confidenza mia.

Elsa Morante
da “Alibi”.

Gli uomini che si voltano

 

Probabilmente

non sei più chi sei stata

ed è giusto che cosí sia.

Hai raschiato a dovere la carta a vetro

e su noi ogni linea si assottiglia.

Pure qualcosa fu scritto

sui fogli della nostra vita.

Metterli controluce è ingigantire quel segno,

formare un geroglifico più grande del diadema

che ti abbagliava.

Non apparirai più dal portello

dell'aliscafo o da fondali d'alghe,

sommozzatrice di fangose rapide

per dare un senso al nulla. Scenderai

sulle scale automatiche dei templi di Mercurio

tra cadaveri in maschera,

tu la sola vivente,

e non ti chiederai

se fu inganno, fu scelta, fu comunicazione

e chi di noi fosse il centro

a cui si tira con l'arco dal baraccone.

Non me lo chiedo neanch'io. Sono colui

che ha veduto un istante e tanto basta

a chi cammina incolonnato come ora

avviene a noi se siamo ancora in vita

o era un inganno crederlo. Si slitta.

 

                                      (Satura II)

 

Struldbrugness

Ahimé nell'universo
Non ha luogo la morte, ora ben vedo:
L’odiosa vita regna in ogni dove.
Vano è cercare scampo e refrigerio
Al gran barbaglio, travaglio e fragore
D’una maligna estate.
Non si dà tana ombrosa
Né di stagione men rabbioso indizio;
Nessuno torna indietro.
“Schiaccia il capo alla vita”. – Oh amico ignaro!
All’esser nati non è più riparo.

Tommaso Landolfi 

In ricordo di Anna Cascella Luciani

la vita / è un assassinio / ancora colorato / di carminio

Abbi pazienza, mia donna affaticata,
abbi pazienza per le cose del mondo,
per i tuoi compagni di viaggio, me compreso,
dal momento che ti sono toccato in sorte.
Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici
per questo tuo compleanno rotondo.
Abbi pazienza, mia donna impaziente,
tu macinata, macerata, scorticata,
che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno
perché la carne nuda ti faccia più male.
Non è più tempo di vivere soli.
Accetta, per favore, questi 14 versi,
sono il mio modo ispido di dirti cara,
e che non starei al mondo senza te.
 
Primo Levi
Primo Levi e Lucia Morpurgo
Primo Levi e Lucia Morpurgo

a Eugenio Montale

La festa verso l'imbrunire vado
in direzione opposta della folla
che allegra e svelta sorte dallo stadio.
Io non guardo nessuno e guardo tutti.
Un sorriso raccolgo ogni tanto.
Più raramente un festoso saluto.

Ed io non mi ricordo più chi sono.
Allora di morire mi dispiace.
Di morire mi pare troppo ingiusto.
Anche se non ricordo più chi sono.

Sandro Penna 

A volte, sull’orlo della notte, si rimane sospesi
E non si muore. Si rimane dentro un solo respiro,
a lungo, nel giorno mai compiuto,
si vede la porta spalancata da un grido. La mano feriva
con una precisione vicina alla dolcezza. Così
si trascorre ignoti dal primo sangue
fino a qui, fino agli attimi che tornano a capire
e cercano il significato dei corpi e restano
imperfetti e interrogati.
 
Milo De Angelis
da Finale d'assedio
1920
 
C’è questa foto del millenovecentoventi
dove si vede distrutta la casa che adesso abitiamo
una granata italiana l’aveva colpita
proprio la casa proprio la camera
dove poi abbiamo concepito i figli
ma di quei momenti nostri non ci sono immagini
e la vita quando esplode dentro non fa nessun rumore
e anche io ti ho posseduta così si dice
ma in realtà non ho posseduto niente
sei come questa terra dove per lasciare un segno
è inutile combattere bisogna appartenere
diventare umili e abitare con pazienza
come fa il colore su una rosa
 
Francesco Tomada

Ora che capovolta è la clessidra,
che l’avvenire, questo caldo sole,
già mi sorge alle spalle, con gli uccelli
ritornerò senza dolore
a Bellosguardo: là posai la gola
su verdi ghigliottine di cancelli
e di un eterno rosa
vibravano le mani, denudate di fiori.

Oscillante tra il fuoco degli uliveti,
brillava Ottobre antico, nuovo amore.
Muta, affilavo il cuore
al taglio di impensabili aquiloni
(già prossimi, già nostri, già lontani):
aeree bare, tumuli nevosi
del mio domani giovane, del sole

 

Cristina Campo

Sera di Pasqua


Alla televisione
Cristo in croce cantava come un tenore
colto da un'improvvisa
colica pop.
Era stato tentato poco prima
dal diavolo vestito da donna nuda.
Questa è la religione del ventesimo secolo.
Probabilmente la notte di San Bartolomeo
o la coda troncata di una lucertola
hanno lo stesso peso nell'Economia
dello Spirito
fondata sul principio dell'Indifferenza.
Ma forse bisogna dire che non è vero
bisogna dire che è vera la falsità,
poi si vedrà che cosa accade. Intanto
chiudiamo il video. Al resto
provvederà chi può ( se questo chi
ha qualche senso ). Noi non lo sapremo.



(Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni)

Giovanni Santi, Vir Dolorum
Giovanni Santi, Vir Dolorum

Giornata Mondiale della Poesia 

21 marzo 2023

Oggi, uno"strappo" alla regola: pubblichiamo un autore ecuadoregno con una poesia effervescente, come la primavera.

Le piacevano gli uomini, sanamente, e a loro la birra.
Per questo aprì l’unico bar del paese (una tavola e tre sedie
che teneva nella sala) sul lato della strada, frequentato
dai solitari che parlano tra loro sull’orlo della domenica.
(Gli altri giorni i cani, le galline e i maiali
si rotolano sotto i mobili e un avvoltoio a volte
si abbatte sulla tavola e fissa lì il suo territorio.)
La musica della sua radio rumorosa tra le mosche
arriva a dire che giorno è al carbonaio e alla sua signora
e guarisce il balbuziente dal canto della messa.
I marinai la cercano per sentire un’altra volta un’altra voce,
roca di acquavite e femmina, alla quale attraccano
dopo il viaggio con silenzio di iodio.
Chiede con insistenza di due volte
vedova e senza vedovanza (esageratamente vedova),
e senza capire la geografia orale delle spiegazioni,
dove sono i paesaggi delle cartoline
che qualcuno le mandava. (Le spillava alla porta
con il testo verso l’alto perché le notizie
le piacevano più delle fotografie.)
Chiede dell’uomo che doveva tornare
una domenica sera (da quindici mesi ormai),
che si portò l’orologio del marito (fermo all’ora
in cui fu ucciso da uno sparo) affinché lo riparassero
laggiù lontano disse, dove ci sono buoni orologiai disse,
e i suoi orecchini come pegno che sarebbe tornato
a metterglieli di nuovo (cerimonia nuziale?)
“con queste stesse mani che ti hanno amato ieri notte”
e portarsela in uno di quei paesi perché ridesse.
Chiede perché non è tornato né è tornato
a mandarle cartoline. Dove sta. Perché non viene.
(Se da qui si vede che il mare è piatto che scusa
ha.) Ditegli di venire. Che lui sa
che gli orecchini lo disturberanno all’ora di coricarsi
e che se non si è potuto riparare l’orologio non importa.
In fondo servì solo due volte quando segnò l’ora
in cui qualcuno se ne andava per sempre.

 

Jorge Enrique Adoum

da “Cartoline del Tropico con donne” (Postales del Trópico con mujeres) - traduzione di Raffaella Marzano, in “L’amore disinterrato e altre poesie” (Multimedia Edizioni).

Un femme du monde, autore Hyppolite Hector
Un femme du monde, autore Hyppolite Hector
Padre, se anche tu non fossi il mio
 

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

 

E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia avea fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.

 

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.

 

Camillo Sbarbaro

 

Portami ancora per mano – Poesie per il padre (Crocetti, 2001)

 

 

Fausto Pirandello: Padre e figlio 

Vorrei essere donna
come la neve è neve,
flemmatica e misurata,
nel mio viaggio verticale,
pronta a deviare al soffio, al volo,
ma senza addomesticare
il bianco
della natura e uno sfarfallio
che non è paura,
sicura e serena, senza ostentare
capace, in misura uguale,
di prendere amore e di farmi odiare.
Devota alla mia sostanza,
alleata fedele della mia
condizione,
di me stessa per prima
amante e sposa,
essere donna
come neve che non sa e non deve
fare che neve
sullo straccio
e sulla rosa.
 
(Questo mio pensiero nasce per le donne, ma è rivolto a tutte le anime; che ciascun* di noi possa muoversi nel mondo liberamente, seguendo e rispettando la propria natura e il proprio volere, senza aver paura di disattendere richieste o aspettative, senza dover piegarsi alle manipolazioni, vessazioni, coercizioni di altr* che richiedono a noi l’adesione ad un’idea che non ci appartiene)
B.Z.
 
Immagine: Joaquín Sorolla y Bastida, Clotilde sulla spiaggia
Immagine: Joaquín Sorolla y Bastida, Clotilde sulla spiaggia
...Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture...
 
 
Mi fermo un momento a guardare
 
Non correre. Fermati. E guarda.
Guarda con un solo colpo dell’occhio
la formica vicino alla ruota dell’auto veloce
che trascina adagio adagio un chicco di pane
e così cura paziente il suo inverno.
Guarda. Fermati. Non correre.
Tira il freno alza il pedale
abbassa la serranda dell’inferno.
Guarda nel campo fra il grano
lento e bianco il fumo di un camino
con la vecchia casa vicina al grande noce.
Non correre veloce. Guarda ancora.
Almeno per un momento.
Guarda il bambino che passa tenendo la madre per mano
il colore dei muri delle case
le nuvole in un cielo solitario e saggio
le ragazze che transitano in un raggio di sole
il volto con le vene di mille anni
di una donna o di un uomo venuti come Ulisse dal mare.
Fermati. Per un momento. Prima di andare.
Ascoltiamo le grida d’amore
o le grida d’aiuto
il tempo trascinato nella polvere del mondo
se ti fermi e ascolti non sarai mai perduto.
 
Roberto Roversi
 
da "Non isolarsi, ma ascoltare", Antologia poetica, Pendragon Edizioni, 2022

Anche quest'anno, nella ricorrenza della sua nascita, vogliamo ricordare Carlo Betocchi

Un dolce pomeriggio d’inverno

Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce
perché la luce non era più che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.

Come povere farfalle, come quelle
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavan via leggiere e belle,
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre più in alto volavano mai stanche.

Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c’era più una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d’un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l’angelo che a Te mi conduce.

da "Altre poesie". Vallecchi Editore, 1939

   Le poesie di Luigi Pirandello

 

"Voce"

 di Maria Luisa Spaziani

Caffè a Rapallo
 
Natale nel tepidario
lustrante, truccato dai fumi
che svolgono tazze, velato
tremore di lumi oltre i chiusi
cristalli, profili di femmine
nel grigio, tra lampi di gemme
e screzi di sete…
Son giunte
a queste native tue spiagge,
le nuove Sirene!; e qui manchi
Camillo, amico, tu storico
di cupidige e di brividi.
 
S’ode grande frastuono nella via.
 
È passata di fuori
l’indicibile musica
delle trombe di lama
e dei piattini arguti dei fanciulli:
è passata la musica innocente.
 
Un mondo gnomo ne andava
con strepere di muletti e di carriole,
tra un lagno di montoni
di cartapesta e un bagliare
di sciabole fasciate di stagnole.
Passarono i Generali
con le feluche di cartone
e impugnavano aste di torroni;
poi furono i gregari
con moccoli e lampioni,
e le tinnanti scatole
ch’ànno il suono più trito,
tenue rivo che incanta
l’animo dubitoso:
(meraviglioso udivo).
 
L’orda passò col rumore
d’una zampante greggia
che il tuono recente impaura.
L’accolse la pastura
che per noi più non verdeggia.
 
Eugenio Montale
Da "Poesie per Camillo Sbarbaro", Ossi di Seppia

Di un Natale metropolitano 

Londra

 

Un vischio, fin dall’infanzia sospeso grappolo
di fede e di pruina sul tuo lavandino
e sullo specchio ovale ch’ora adombrano
i tuoi ricci bergère fra santini e ritratti
di ragazzi infilati un po’ alla svelta
nella cornice, una caraffa vuota,
bicchierini di cenere e di bucce,
le luci di Mayfair, poi a un crocicchio
le anime, le bottiglie che non seppero aprirsi,
non più guerra né pace, il tardo frullo
di un piccione incapace di seguirti
sui gradini automatici che ti slittano in giù…

 

Eugenio Montale

(da "La bufera e altro”)

                                  “Lettera alla madre” di Salvatore Quasimodo

 

Mater dulcissima, ora scendono le nebbie, 
il Naviglio urta confusamente sulle dighe, 
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve; 
non sono triste nel Nord: non sono 
in pace con me, ma non aspetto 
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime 
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi 
come tutte le madri dei poeti, povera 
e giusta nella misura d’amore 
per i figli lontani. Oggi sono io 
che ti scrivo.» – Finalmente, dirai, due parole 
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto 
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore 
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. – 
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo 
di treni lenti che portavano mandorle e arance, 
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, 
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio, 
questo voglio, dell’ironia che hai messo 
sul mio labbro, mite come la tua. 
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori. 
E non importa se ora ho qualche lacrima per te, 
per tutti quelli che come te aspettano, 
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte, 
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro 
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto 
del suo quadrante, su quei fiori dipinti: 
non toccare le mani, il cuore dei vecchi. 
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà, 
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater. 

Ballata delle donne

 

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.

 

Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:


pensarci il maschio, pensare non piace.

Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.

 

Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.

 

Femmina penso, se penso l’umano
la mia compagna, ti prendo per mano.

 

Edoardo Sanguineti

 

da Mikrokosmos. Poesie 1951-2004, Feltrinelli, 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine: Alessandro Lupo

             (1876-1953)

Vorrei sentire la tua mano fresca
sulla fronte che brucia. Così scende
sopra i roseti esausti la rugiada.
Così sboccia la luna nel buio.
Aiutami ad amarti, ad inventarti
nelle tue assenze. La mia fantasia
è comunque un tuo dono, un chiaro alibi
in questo mondo senza altrove.

 

Maria Luisa Spaziani

 

Carlo Levi

M'avete fatto umano
baci dolenti, terre nascoste
dove un dolore antico
era prima del mio arrivo.
Come un classico dio mendico
sono stato in mezzo al grano
povero e alle scomposte
colline del grigio ulivo;
secoli di pene imposte
e di desiderio vano
sul biondo tuo viso amico
come in quei monti scoprivo
che un egoismo lontano
arse paterno e passivo
spogliando d'erbe l'aprico
terreno e le tenere coste.
Alle offerte senza risposte
so solo rispondere, e dico
parole che apran l'arcano
grembo del fonte vivo.
 
luglio 1936
Assenza
 
Assenza,
più acuta presenza.
Vago pensiero di te
vaghi ricordi
turbano l’ora calma
e il dolce sole.
Dolente il petto
ti porta,
come una pietra
leggera.
 
Attilio Bertolucci
da "Le poesie", Milano, Garzanti, 1998.

Presentazione della plaquette “Elegie alla Luna e Der Mond”

 

Il 5 novembre 2022 presso la sede della Fondazione Anna Elisa Cima Schlesinger, a Castagnola-Lugano, si è svolto un interessante evento poetico e musicale in occasione della presentazione della plaquette “Elegie alla Luna e Der Mond” di Annalisa Cima, edita dalla Fondazione stessa.

Le sette elegie, sue ultime poesie inedite, sono state lette da Ida Ziliani sulla musica composta appositamente dal Maestro Alfonso Di Rosa e da lui stesso eseguite al pianoforte con l’accompagnamento di un quartetto d’archi.

Gli intervalli tra una lettura e l’altra sono stati arricchiti dagli interventi della vicepresidente della Fondazione, dottoressa Tiziana Chiusa, che ha regalato preziose e inedite notazioni biografiche sulla poetessa con la quale ha goduto di una lunga frequentazione e amicizia.

Spesso ricordata come “ultima Musa di Montale” Annalisa Cima è un’artista che ha attraversato una vita ricca di eventi e di incontri, e tutta dedicata all’arte: alla musica, alla pittura, alla poesia, tre doti che Montale ammirava in lei.

La Fondazione, nata per volontà testamentaria della Cima, non a scopo di lucro, “si dedica alla creazione, alla promozione e al finanziamento di collane di libri e di qualunque mezzo atto a divulgare l’arte e la cultura. Nel corso degli anni istituirà anche borse di studio e realizzerà corsi di perfezionamento a livello universitario e postuniversitario, dedicandosi in particolare alla valorizzazione e alla divulgazione dell’opera di Annalisa Cima, al suo rapporto con Montale e altri grandi della letteratura contemporanea italiana e straniera, nonché alla scoperta e pubblicazione di autori da lei incoraggiati nel corso degli anni.”

Queste le finalità illustrate a un pubblico partecipe ed attento dal presidente professor Silvio Riolfo Marengo che, insieme alla vicepresidente dottoressa Tiziana Chiusa ha presentato il prezioso e curatissimo opuscolo.

 

s.m.

S’io sapessi cantare
come il sole di giugno nel ventre della spiga,
l’obliquo invincibile sole;
s’io sapessi gridare
gridare gridare gridare come il mare
quando s’impenna nel ludibrio d’aquilone;
s’io sapessi, s’io potessi
usurpare il linguaggio della pioggia
che insegna all’erba crudeli dolcezze…
oh allora ogni mattino,
e non con questa roca voce d’uomo,
vorrei dirti che t’amo
e sui muri del mio cieco cammino
scrivere la letizia del tuo nome,
le tre sillabe sante e misteriose,
il mio sigillo di nuova speranza,
il mio pane, il mio vino,
il mio viatico buono.
 
Gesualdo Bufalino
da “L’amaro miele”, Einaudi, Torino, 1989

Eugenio Montale - 12 ottobre 1896

 

 

Sono venuto al mondo
 
Sono venuto al mondo in una stagione calma.
Molte porte si aprivano che ora si sono chiuse.
L’ Alma Mater dormiva. Chi ha deciso
di risvegliarla ?
 
Eppure
non furono così orrendi gli uragani del poi
se ancora si poteva andare, tenersi per mano,
riconoscersi.
 
E se non era facile muoversi tra gli eroi
della guerra, del vizio, della jattura,
essi avevano un viso, ora non c’è neppure
il modo di evitare le trappole. Sono troppe.
 
Le infinite chiusure e aperture
possono avere un senso per chi è dalla parte
che sola conta, del burattinaio.
Ma quello non domanda la collaborazione
di chi ignora i suoi fini e la sua arte.
 
E chi è da quella parte ? Se c’è, credo
che si annoi più di noi. Con altri occhi
ne vedremmo più d’uno passeggiare
tra noi con meno noia e più disgusto.
 
Satura II

 

 

Da un eterno esilio
eternamente ritorno
 
e coi giorni mi volgo e mi confondo,
vado, da me sempre più lontano,
divelto per erbe prati e tempi
d’ottobre
e silenzi confidati agli orecchi
da stelle e monti.
 
Andrea Zanzotto
 
(dall’Appendice dell’edizione del 1981 di Vocativo, 1957)
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
Le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
Non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
Le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
 
Eugenio Montale
Satura 1962-70 (Milano, Mondadori 1971)

 

 
“È lì che si comprende / il senso di una strage, / quando il silenzio avvolge e copre / senza scelta e senza distinzione / come la gente attorno a una stazione / che prende il treno per lavoro / o per le ferie, a inizio agosto / di mattina, come sempre.”
 
Matteo Fantuzzi
"La stazione di Bologna" (Feltrinelli, 2017)

"Ballerino è il nome del treno che attraversa l’Italia, il treno Palermo-Francoforte, quello della strage di Bologna del 2 agosto 1980, poco più di un mese prima dell’uscita dell’album Dalla: Balla balla ballerino è il racconto onirico di quel tragico fatto di cronaca, il testo ne ricalca perfettamente l’avventura in forma fiabesca, il treno stacca un aereo in cielo, è un ballerino, e dunque balla, balla sui violenti, sul male, balla (dunque viaggia) per sempre, spazia nel tempo, per monti e per mari. Lucio trasforma l’immagine tragica e indelebile di una strage fascista nell’immagine commossa e tenera, armoniosa, di un treno che si fa umano – perché popolato da uomini che con il loro sguardo oltre il finestrino possono fermare l’orrore del reale – e che viene esortato a non fermarsi mai, persino a divertirsi, a giocare, a volare alto, come se metaforicamente l’autore invitasse il mondo ad aprirsi in un volo che lasci a terra ogni dolore." (Giulia Cavaliere)

Agli amici
 
Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
 
Dico per voi, compagni d'un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L'anima, l'animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo
Prima che s'indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l'impronta
Dell'amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l'augurio sommesso
Che l'autunno sia lungo e mite.
 
16 dicembre 1985
 
Primo Levi
 
 
 
 

29 giugno 2022

 

224 anni fa nasceva Giacomo Leopardi.

La sua, la nostra, l'esperienza di vita comune ci affratella ora e sempre.

Il Sublime ci attraversa tramite i suoi versi.

 

Dal cuore del miracolo

 

Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.

Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.

 

Giovanni Giudici

 

da "Tutte le poesie", Mondadori, 2014

Patrizia Cavalli

E me ne devo andare via così?/ Non che mi aspetti il disegno compiuto / ciò che si vede alla fine del ricamo / quando si rompe con i denti il filo / dopo averlo su se stesso ricucito / perché non possa più sfilarsi se tirato. / Ma quel che ho visto si è tutto cancellato. / E quasi non avevo cominciato."

                                                ALLA LUNA

 

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!

Umberto Santino
 
Lettera ai compagni di Peppino, per ricordare
e, se è possibile, per continuare
 
Io non so
se è ancora possibile
parlare senza mentire
guardarsi negli occhi
senza abbassare le palpebre
ripensare i giorni dei vivi
(quando Peppino
era ancora tra noi
e la sua vita era nuda
febbrile
e le sue lacerazioni
chiedevano tenerezze negate
abortite carezze)
e le notti dei morti
(quando il suo corpo
fu steso sul binario
le gocce del suo sangue
esplosero nel lampo del tritolo
e il suo nome
fu cancellato sui manifesti
il suo volto offeso
da nemici più feroci degli assassini)
 
Io non so se è ancora possibile
ricordarlo
e ricordarci
 
sono trascorsi pochi anni
ma è passato un tempo più lungo
di mille eternità
e oggi abbiamo
mani più vuote
della bara che portava
le sue briciole
oggi siamo nudi
più dei suoi nervi
che bucavano la pelle
siamo disperati
più di quando meditava il suicidio
e lanciava al mondo
la sfida dei suoi fallimenti
 
Il millennio muore
in una infinita Chernobyl
del desiderio e della speranza
 
Non vogliamo più piangere
non abbiamo più certezze
e cerchiamo di arredare
i nostri giorni
con mani più umili
di quelle che allevavano
sogni e furori
nelle viscere del ’68
ma una sola cosa
vorrei che ci dicessimo
 
(se è ancora possibile
parlare senza mentire
guardarci negli occhi
senza abbassare le palpebre)
 
che non possiamo consegnarci
alla viltà e alla menzogna
 
Peppino ci unisce
 
se sappiamo ancora
vivere la sua vita
in una stagione diversa
con nuove immagini
e nuove parole
ma con la stessa volontà
di negarsi alla crudeltà degli assassini
alle astuzie dei mercanti
che offrono scampoli di potere
per elevare al cielo
le loro piramidi di voti
alle chiacchiere di chi copre
la sua svendita
al migliore offerente
con patacche senza valore
 
Peppino ci divide
 
se non abbiamo più voglia
di scontrarci
quando è necessario
scontrarsi
di rompere con il padre
quando tutti diventano
figli della desolazione
ed eredi della viltà
 
Il millennio muore
in un’infinita Chernobyl
del desiderio e della speranza
 
ma non ci saranno nuovi giorni
se non sapremo
parlare senza mentire
guardarci negli occhi
senza abbassare le palpebre
se non avremo dentro
tanta rabbia e tanta tenerezza
da squarciare le nuvole
se non saremo capaci
di dare amore
a un compagno come lui
separato da tutti
se non sapremo incontrarlo
anche in fondo
al pozzo delle solitudini
e camminare insieme
a testa alta
tra le case
con le finestre sbarrate
sfidando
il silenzio dei vili
e la vittoria degli assassini
 
1990

 

Lunga è la notte
e senza tempo.
Il cielo gonfio di pioggia
non consente agli occhi
di vedere le stelle.
Non sarà il gelido vento
a riportare la luce,
né il canto del gallo
né il pianto di un bimbo.
Troppo lunga è la notte,
senza tempo,
infinita.
 
Peppino Impastato

Un addio riconoscente a Biancamaria Frabotta

 

C’era freddo e fame sotto
le stelle sgranate di Sarajevo.
Era più facile filmare i segni
delle granate sui muri
alla tua cinepresa che schivare
l’onda del terrore nel buio
del ritorno di fiamme sul suolo.
Astri e luce, entrambi svelandovi
vi esponevano al pericolo.
Noi che non eravamo lì
noi coniugati al presente
che ne sapevamo noi delle gengive
nude dei lattanti, delle belve postate
sui belvederi, delle unghie laccate
dalle infermiere per l’apparenza
di una volontà libera di sopravvivere
chi immaginava i ragazzi sui pattini
in corsa sui ponti mirati?
Qualcuno si stese e vide l’inganno.
Erano ciechi gli occhi delle stelle?
Fu reciproco non vederci nel vederci? […]
Chi sta fuori dalla prigione
non può farsene un’idea esatta.
 
(da La materia prima)
 
foto dal profilo fb del poeta
Io sono grato al male per gli obblighi di purità che mi ha posti.
Al nemico per i muri d'ombra che ha alzati intorno a me.
 
Ringraziamento, Vincenzo Cardarelli
 
(Prologhi, Meridiani Mondadori, 1981)

Del nostro amato amico Giò, Giovanni Gastel

 

Sulla terrazza ascoltavo in silenzio chi non c'è più.

Dicevi: "Vivi con leggerezza.

Quelli che prendono la realtà alla lettera

non capiscono che vivere è una metafora

e perdono la connessione con l'unità del tutto."

Poi hai aggiunto: "Senza gioia tutto rimarrebbe immobile.

Il dolore non muove né fa danzare l'universo

è la nostra visione del mondo che dà forma al nulla."
Hai socchiuso gli occhi: Era tutto.

 

                                         Milano 2015

 

dal suo libro "Presenza e Assenza

Tutte le poesie

edito nel marzo 2022 da "La nave di Teseo"

21 marzo

Io già sento primavera
che s’avvicina coi suoi fiori:
versatemi presto una tazza di vino dolcissimo.

Alceo
da “Lirici greci”, traduzione di Salvatore Quasimodo

Supplica a mia madre

 

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

 

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

 

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

 

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

 

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

 

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

 

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

 

Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

 

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

 

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

 

Pier Paolo Pasolini

Una bellissima, approfondita panoramica sull'avventura romana di Pier Paolo Pasolini

5 marzo 1922

UNA DISPERATA VITALITA'" (parte VII)

 

Non perdona!

 

C'era un'anima, tra quelle che ancora

dovevano scendere nella vita

- tante, e tutte uguali, povere anime -

un'anima, in cui nella luce degli occhi castani,

nel modesto ciuffo pettinato da un'idea materna

della bellezza maschile,

ardeva il desiderio di morire.

 

La vide subito, colui

che non perdona.

 

La prese, la chiamò vicino a sé,

e, come un artigiano,

lassù nei mondi che precedono la vita,

le impose le mani sul capo

e pronunciò la maledizione.

 

Era un'anima candida e pulita,

come un ragazzetto alla prima comunione,

saggio della saggezza dei suoi dieci anni,

vestito di bianco, di una stoffa

scelta dall'idea materna della grazia maschile,

con negli occhi tiepidi il desiderio di morire.

 

Ah la vide subito, colui

che non perdona.

 

Vide l'infinita capacità di obbedire

e l'infinita capacità di ribellarsi:

la chiamò a sé e operò su lei

- che lo guardava fiduciosa

come un agnello guarda il suo giusto carnefice -

la consacrazione a rovescio, mentre

nel suo sguardo cadeva

la luce, e saliva un'ombra di pietà.

 

"Tu scenderai nel mondo,

e sarai candido e gentile, equilibrato e fedele,

avrai un' infinita capacità di obbedire

e un'infinita capacità di ribellarti.

Sarai puro.

Perciò ti maledico."

 

Vedo ancora il suo sguardo

pieno di pietà - e del leggero orrore

che si prova per colui che la incute,

lo sguardo con cui si segue

chi va, senza saperlo, a morire,

e, per una necessità che domina chi sa e chi non sa,

non gli si dice nulla -

vedo ancora il suo sguardo,

mentre mi allontanavo

dall'Eternità - verso la mia culla.

 

Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, © 1976 Garzanti Libri SpA, Milano

 
 

 

Chissà se un giorno butteremo le maschere.... 

 

Chissà se un giorno butteremo le maschere

che portiamo sul volto senza saperlo.

Per questo è tanto difficile identificare

gli uomini che incontriamo.

Forse fra i tanti, fra i milioni c'è

quello in cui viso e maschera coincidono

e lui solo potrebbe dirci la parola

che attendiamo da sempre. Ma è probabile

ch'egli stesso non sappia il suo privilegio.

 

 

                                                                       (da Quaderno di quattro anni)

                                                                        Eugenio Montale 

Aggiungi il tuo testo...

Epifania

 

Notte, la notte d’ansia e di vertigine
quando nel vento a fiotti interstellare,
acre, il tempo finito sgrana i germi
del nuovo, dell’intatto, e a te che vai
persona semiviva tra due gorghi
tra passato e avvenire giunge al cuore
la freccia dell’anno… e all’improvviso
la fiamma della vita vacilla nella mente.
Chi spinge muli su per la montagna
tra le schegge di pietra e le cataste
si turba per un fremito che sente
ch’è un fremito di morte e di speranza.

 

In una notte come questa,
in una notte come questa l’anima,
mia compagna fedele inavvertita
nelle ore medie
nei giorni interni grigi delle annate,
levatasi fiutò la notte tumida
di semi che morivano, di grani
che scoppiavano, ravvisò stupita
i fuochi in lontananza dei bivacchi
più vividi che astri. Disse: è l’ora.
Ci mettemmo in cammino a passo rapido,
per via ci unimmo a gente strana.

 

                                                      Ed ecco
il convoglio sulle dune dei Magi
muovere al passo dei cammelli verso
la Cuna. Ci fu ressa di fiaccole, di voci.
Vidi gli ultimi d’una retroguardia frettolosa.
E tutto passò via tra molto popolo
e gran polvere. Gran polvere.

Chi andò, chi recò doni
o riposa o se vigila non teme
questo vento di mutazione:
tende le mani ferme sulla fiamma,
sorride dal sicuro
d’una razza di longevi. 

Non più tardi di ieri, ancora oggi.

 

Mario Luzi

(da Onore del vero, 1957)

 

12 ottobre 1896 nasceva Eugenio Montale

Sono venuto al mondo
 
Sono venuto al mondo in una stagione calma.
Molte porte si aprivano che ora si sono chiuse.
L’ Alma Mater dormiva. Chi ha deciso
di risvegliarla ?
 
Eppure
non furono così orrendi gli uragani del poi
se ancora si poteva andare, tenersi per mano,
riconoscersi.
 
E se non era facile muoversi tra gli eroi
della guerra, del vizio, della jattura,
essi avevano un viso, ora non c’è neppure
il modo di evitare le trappole. Sono troppe.
 
Le infinite chiusure e aperture
possono avere un senso per chi è dalla parte
che sola conta, del burattinaio.
Ma quello non domanda la collaborazione
di chi ignora i suoi fini e la sua arte.
 
E chi è da quella parte ? Se c’è, credo
che si annoi più di noi. Con altri occhi
ne vedremmo più d’uno passeggiare
tra noi con meno noia e più disgusto.
 
Satura II
 
 
 
 

Ricordiamolo con la cerimonia dell'assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura nel !975

«Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?»

 

(Intervista a Giulio Nascimbeni, Corriere della sera, 24 ottobre 1975, commento per l'assegnazione del Nobel)

Avevamo studiato per l'aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
Un anno fa ci lasciava Gabriele Galloni. Lo ricordiamo con una poesia tratta da “L’estate del mondo”, Marco Saya Editore, 2019
 
 
Noi dormiamo raccolti nell’estate.

Ha smesso già di svegliarci il rumore
del mondo. I nostri piedi sono nudi,
scoperti, ché il lenzuolo è troppo corto.

Il nostro sonno è come una corrente
di risacca; per ore non riusciamo
a svegliarci. Trascorre la mattina

in una luce, una luce che è febbre
da fondale marino; sia destino
guardare tutta la vita da qui.

Per i cento anni di Giorgio Strehler: la Trieste di Saba, e sua.

"Bologna, 2 agosto 1980, ore 10,25..."

Non ho capito cosa è successo. Ma sta' allegra.
La mia bambola, Nerina, mi ha detto in un orecchio:
«Ora vedrai, andremo al Paese dei Balocchi
e faremo un girotondo con tante altre bambine».
Pensavo a Emilio, in quel momento.
Non ci voleva proprio questo sisma.
Emilio mi aspettava alla stazione
e lo so, come sempre, coi fiori.
Se ritadavo li buttava a terra.
Parlava di sposarmi. Che ridere...
L'avevo conosciuto per caso davanti al giornalaio.
Chissà, poi, cosa sarà stato: un tuono d'estate.
Stavo pensando al campo di mio padre,
nell'Alta Irpinia, ai limiti del Cielo.
«Vieni, mi aveva scritto, il grano è stato tagliato
e i girasole si sono voltati a oriente.»
Avevo una ferita sanguinante.
Voleva lasciarmi perché era sposato.
Io avevo pietà per i suoi figli.
Ma l'amavo e tessevo il dolore a punto assisi
seduta sulla sedia de la Gare de Boulogne.
Ma a tela finita egli verrà.
Avevo detto sempre agli amici
che la vita era uno schifo.
Ma in quell'attimo, in un lampo
ho visto tutte le sue meraviglie.
Per Peppino avevo comprato Goldrake,
per Lucia una bambola che faceva pipì,
per mia figlia Anna Maria,
la madre dei miei vispi nipoti, un frullatore.
Poi... ci sarà stato un falso contatto.
Qualcosa non avrà funzionato.
E sono stato sbalzato dalla poltroncina.
Ma io ho cercato soltanto di salvare
Goldrake e la bambola di nome Imam.
Vi prego, spediteli ai ragazzi.
E non sbagliate indirizzo.
Codice postale 80123.
[...]



Domenico Rea 

24 luglio 2021: per i novanta anni di Ermanno Olmi

Oggi, 3 giugno 2021, Emanuele Luzzati avrebbe compiuto cento anni

2 aprile 2021 Venerdì Santo

 

Riproponiamo la "Meditazione" da "La Passione. Via Crucis al Colosseo" di Mario Luzi, uno splendido doloroso testo che ci dona tutta l'Umanità del Cristo

 

 
Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio Tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.
Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d’amore,
non guardare alla sua insensatezza.
Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.
Ma da questo stato umano d’abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.
 
 

Calvario 

Spagnoletto, Jusepe de Ribera

Giovanni Gastel ci ha lasciato, ieri, ennesima vittima di un tempo difficile durante il quale ha saputo donarci ancora la sua arte luminosa: parole e immagini attraverso le quali ci ha reso partecipi della Bellezza che gli è stata sempre compagna e Musa. Lo salutiamo addolorati e grati.

Se potessi raccontarvi una storia
una storia bella
con un finale lieto
come nei film americani
vi racconterei di un bambino malinconico
che dalle sponde di un lago
ha visto la bellezza venirlo a cercare.
Lei gli ha detto
-Seguimi
non ti prometto la pace
ma attimi di intensa gioia
che valgono una vita.-
Lui l’ha seguita
e lei l’ha difeso dalla durezza
del vivere.
Non ha vissuto
felice e contento.
Ma ha vissuto con grande intensità
quel viaggio sublime che chiamiamo vita.
 
Giovanni Gastel
Milano 2021

(immagine tratta dal suo profilo fb)

Forse è vano questo ricordo

Forse è vano anche questo ricordo
Appena vivo per un fischio
Del ragazzo scomparso
Dietro le mura del borgo
Una mattina di nevischio.
Avevi la testa bendata
Rosso angelo litigioso,
Ti spuntava un'umida rosa
Di sangue sotto la garza.
Io ti persi lungo le rampe
Delle mura. Ora non vedo
Che la tua ombra sulla neve
Azzurra, il lume delle tue gambe.

 

Leonardo Sinisgalli

Quando si è avuto in dono un professore poeta:

 

Giovanni Campus

da "Mediterranee" 

 

Questo rimane dell’antica Troia:
il verso del poeta, che solleva il dolore degli uomini sull’onda
del tempo perché nulla
venga dimenticato, perché a tutti
risponda
quell’eterno
mistero che ci chiude prigionieri
nella storia del mondo. Ma sul colle
tormentato, trafitto
dalle rovine resta solo il vento.

 

(Per gli scavi di Troia)

 

 

 

Siamo dentro impulsi e algoritmi,
in una foto in bianco e nero,
in un passato contadino.
Nasciamo già esistendo da tempo,
moriamo senza scomparire,
finché dura la luce del sole.
Prima di riconsegnare ogni adesso
abbiamo il dono di scegliere
cosa lasciare a chi viene.
Quest’attimo è forse la bellezza,
poter fare delle nostre mani
strappi o carezze leggere.

Domenico Carrara 

Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno
dopo l’altro ti lascio, anima mia.
Per gelosia di vecchio, per paura
di perderti – o perché
avrò smesso di vivere, soltanto.
Però sto fermo, intanto,
come sta fermo un ramo
su cui sta fermo un passero, m’incanto…
 
Giovanni Raboni
da: Canzonette mortali, 1981 – 1983, in “Tutte le poesie, 1949-2004”, Einaudi, Torino, 2014
Cume me pias el mund!
 
Cume me pias el mund! L’aria, el so fiâ!
j àrbur, l’èrba, el sû, quj câ, i bèj strâd,
la lüna che se sfalsa, l’èrga tra i câ,
me pias el sals del mar, i matt cinâd,
i càlis tra i amís, i abièss nel vent,
e tücc i ròbb de Diu, anca i munâd,
i spall che van de pressia cuj öcc bass,
la dònna che te svisa i sentiment:
l’è lí el mund, e par squasi spettàss
che tí te ‘l vàrdet, te ghe dét atrâ,
che lü ‘l gh’è sempre, ma facil smemuriàss.
tràss föra ind i pernser, vèss durmentâ…
Ma quan’ che riva l’umbra de la sera,
‘me che te ciama el mund! cume slargâ
te vègn adòss quèl ciel ne la sua vera
belessa sena feng nel so pensàss,
e alura del tò pien te càmbiet cera.
Vèss òm e vèss puèta… Cum’i can
che bajèn a la lüna per natüra,
per la passiensa de stà lí a scultà…
Vèss òm e vèss puèta… ‘Na paüra
de vèss un’aria, un buff… duè murí…
Vèss òm e vèss puèta… Per la scüra
del crèss tra j òmm, desperdèss nel patí,
per returnà quèl fiìsc de la memoria
che la passiensa l’à sparagnâ nel dí.
L’è ‘me ‘na müseca che canta de luntan
e mí la brasci tütta sensa streng,
ché lé se spand e fa sentí ai mè man
la rösa che nel sû me par de feng:
l’è ‘n fiâ, un möess ciar di föj nel vérd,
un rídd del sang che ciama l’aria al streng,
‘na vûs che lenta nel corp la se despèrd…
E parli pü, gh’în lur dumâ, j üsèj,
e un stà nel vöj due che crèss el vérd.
Dent la paròla vèrta mí me pèrdi,
deventi i ròbb del mund, l’aria che passa,
quèla parola che sta dedré de l’aria
e se fa ciara aj ögg che stan nel temp,
e se mí parli sù no chi l’è ‘l parlà,
l’è ‘l vent che parla cul mè d’un sentiment,
ché nient se fa del nient e nel pensà
la vûs che mí me ciama me vègn dent.
Quan’ nüm dísum cultüra, dísum nagott.
L’è tütt un büscià e sòtt gh’è minga ‘l vin,
ch’în quatter j òmm che san e cent ch’imbröja,
e milacent che curr al ner del vin…
Un füm che cuatta ‘l mund de vècc e mort,
tra i càlis che se arsa, un gran magnà,
spüssa che figa passa, e dré di port
la man di làder scunfüsa ai leterâ.
 
Franco Loi
Come mi piace il mondo!
 
Come mi piace il mondo! l’aria, il suo fiato!
gli alberi, l’erba, il sole, quelle case, le belle strade,
mi piace il salso del mare, le matte stupidate,
i calici tra gli amici, gli alberi nel vento,
e tutte le cose di Dio, anche le piccolezze,
e i tram che passano, i vetri che risplendono,
le spalle che vanno di fretta a occhi bassi,
la donna che ti turba i sentimenti:
è lí il mondo, che sembra aspettarsi
che tu lo guardi, che gli dai retta,
poiché lui c’è sempre, ma è facile dimenticarlo,
distrarsi nei pensieri, essere addormentati…
Ma quando arriva l’ombra della sera,
come ti chiama il mondo! come si allarga
e ti viene addosso quel cielo nella sua vera
bellezza senza finzioni nel suo riflettersi,
e allora per la tua pienezza cambi colore.
Essere uomo ed essere poeta… Come i cani
che abbaiano alla luna per natura,
per la pazienza di star lí ad ascoltare…
Essere uomo ed essere poeta… Una paura
di essere un’aria, un soffio… dover morire…
Essere uomo ed essere poeta… Per l’oscurità
del crescere tra gli uomini, disperdersi nel patire,
per ritornare quel fischio della memoria
che la pazienza ha risparmiato nel giorno.
È come una musica che canta di lontano
e io l’abbraccio tutta senza stringere,
ché lei si espande e fa sentire alle mani
la rosa che nel sole mi sembra di fingere:
è un fiato, un muoversi chiaro di foglie nel verde,
un ridere del sangue che chiama l’aria alla stretta,
una voce che lenta nel corpo si disperde…
Non parlo più, ci sono loro, gli uccelli,
e un ristare nel vuoto dove cresce il verde.
Dentro la parola aperta io mi perdo,
divento le cose del mondo, l’aria che passa,
quella parola che sta dietro l’aria
e si fa chiara agli occhi che stanno nel tempo,
e se io parlo non so chi è il parlare,
è il vento che si dice col mio sentimento,
poiché niente si fa dal niente e nel pensare
la voce che mi chiama mi viene dentro.
Quando diciamo cultura, non diciamo niente.
È tutta schiuma e sotto non c’è vino,
ché quattro sono gli uomini che sanno e cento che imbrogliano
e millecento che corrono al nero del vino…
Un fumo che copre il mondo di vecchi e morti,
tra i calici che si alzano, un gran mangiare,
puzza di fica passa, e dietro le porte
la mano dei ladri confusa ai letterati.
 
Franco Loi
L'incantato della stella
 
Fu un lungo viaggio, duna su duna, per gli scribi.
Per me fu breve, breve in confronto
all’immobile mappa delle stelle.
Sapevo che il nostro destino era la pista,
o uscirne, perdersi nelle sabbie,
lentezza era lo sguardo degli astri,
che ho conosciuto, studiandone posizione e luce.
I segni del cielo, le rotte eterne,
e noi scivolanti come onde verso una morte lieve
come la carezza di una donna al tramonto.
Conoscevo la perfezione celeste e il breve respiro
umano che si estingue dopo un atto d’amore.
La vita, svanire prima dell’orizzonte.
Ho conosciuto il cosmo e le teorie caldaiche,
le pietre che sfiammano del ricordo di Venere,
i disegni del cielo gelosamente custoditi nei tappeti.
Poi la grotta e fu buio e respiro
animale e povere membra, e una lontana
oscurità rasoterra, più lontana delle stelle,
io non guardai dentro, io provai pena
del tanfo, del povero calore di corpi raccolti.
E uno ne guardai che mi passava accanto,
con gli occhi fissi rapiti da una stella.
Bruno, sporco, con le spalle chiuse da idiota
beveva la luce come eternamente,
eternamente io lo ricorderò, lo racconto.
Perché non fu riflesso ma scontro,
tra quella luce a me nota e un’altra oscura
che in modo assoluto lo incatenava al cielo.
Che luce, che fonte, che pietra stupefacente
orientò lo sguardo e il corpo e il suo destino nel mondo?
Perché io ero già in lui e lo scrutavo
come avevo scrutato gli enigmi celesti,
e non conosco la luce del profondo,
il fiato della caverna ventricolare e del buio
e la mappa disegnata e persa nella sua ignota esistenza.
Che strada, che pista, che dune alzate dal vento
portano a quel segreto entro te stesso?
Dov’era la luce, in alto o in basso?
E io come farò a non perdermi
per esplorare un nuovo universo
quando ti seguirò nel buio del tuo mondo interno,
su quali punti orienterò il mio viaggio
cercando la rotta oscura che proiettò il tuo sguardo,
tu, pezzo di terra,
fangoso simile, fratello?
 
Roberto Mussapi
da "La polvere e il fuoco", Milano, 1997
 
Immagine: dal Salterio di St Albans, i tre Re Magi

 

 

  Notte insonne

 

      Io mi sento guardato da le stelle

 

e questa notte non posso dormire.
Mi par che qualche cosa esse, sorelle
maggiori, a questa terra voglian dire.

 

     O sorgive di luci, la parola,

 

la parola tremenda del mistero
ditela a una vegliante anima sola
perduta in mezzo al vostro cielo nero.

 

Luigi Pirandello

POLVERE

Sarò sempre un po’ meno di quello che sono,
e anzi, molto meno. Polvere. Ho perso molto.
Ciò che si perde è irrecuperabile, e se lo si recupera esso
è ormai disperso, non rientra più nell’ordine prestabilito
delle cose. Sono contento
se di me non rimane che un lieve
involucro. Ho perso
molto. In questa levità,
ciò che più importa è l’assenza di acuti,
che tutto sia tondo e raccolto. Basta
questo. Tutto ciò che è devastato può divenire rotondo,
ancora rotondo. Come un vaso. È ancora possibile.
La polvere può essere recuperata. La polvere era una volta
detriti. Ora la polvere non è detriti,
è lenta friabile. La polvere
è un po’ meno, ma può essere
tenuta insieme. Le ferite
possono diventare polvere, raccolta
e conchiusa. Sono contento
di non capire le cose. La loro
ragione. Vi sono cose che ignoro, e sono
contento. Appaiono come misteri,
tranquille. Ad esempio,
la ragazza che incontro sempre, mi ama
o no? Non lo so. Sono contento
di non saperlo. Sono contento di non sapere
se l’amo, o meglio, so che non l’amo, che potrei
amarla; sono contento
di non sapere se avrei potuto amarla. Questo mistero
mi rassicura più del suo amore.
È bello non sapere. Non sapere, ad esempio,
quanto vivrò,
o quanto vivrà la terra.
Questa sospensione
sostituisce l’eternità.

(…)

Tratto da Carlo Bordini, I costruttori di vulcani, Luca Sossella, Bologna, 2010.

12 ottobre 1896, nasce Eugenio Montale

 

Sono venuto al mondo
 
Sono venuto al mondo in una stagione calma.
Molte porte si aprivano che ora si sono chiuse.
L’ Alma Mater dormiva. Chi ha deciso
di risvegliarla ?
Eppure
non furono così orrendi gli uragani del poi
se ancora si poteva andare, tenersi per mano,
riconoscersi.
E se non era facile muoversi tra gli eroi
della guerra, del vizio, della jattura,
essi avevano un viso, ora non c’è neppure
il modo di evitare le trappole. Sono troppe.
Le infinite chiusure e aperture
possono avere un senso per chi è dalla parte
che sola conta, del burattinaio.
Ma quello non domanda la collaborazione
di chi ignora i suoi fini e la sua arte.
E chi è da quella parte ? Se c’è, credo
che si annoi più di noi. Con altri occhi
ne vedremmo più d’uno passeggiare
tra noi con meno noia e più disgusto.
Satura II

Ricordami, a settembre – come ricordi l’ultima
stanza della tua casa al mare, in fondo
al corridoio e piccola così
da contenere a malapena un letto.
Sarà il tempo per noi sempre più stretto
rifugio.

 

Gabriele Galloni

20 agosto 2020

Sarebbero stati 97

 

Lettera

 

Tutto quel che t’appartiene, o che da te proviene,
è ricco di una grazia favolosa:
perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime.
L’invidia mia riveste d’incanti straordinari
i miei rivali: essi vanno per vie negate ai mortali,
hanno cuore sapiente, cortesia d’angeli.
E le lagrime che mi fai piangere sono il mio bel diadema,
se l’amara mia stagione s’adorna del tuo sorriso.
Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri
e tanti voti da non sapere quale scegliere.
Ormai, se cade una stella a mezzo agosto,
se nel tramonto marino balena il raggio verde,
se a cena ho una primizia nella stagione nuova,
o m’inchino alla santa campagna dell’Elevazione,
non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome,
o parola che m’apri la porta del paradiso.
Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu,
le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate:
l’orgoglio si compiace d’umiliarsi a te,
la vanità si nasconde davanti alla tua gloria,
la voglia si tramuta in timido pudore,
la mia sconfitta esulta della tua vittoria,
la ricchezza è beata di farsi, per te, povera,
e peccato e perdono, ansia e riposo,
sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia.
Ma la frase celeste, che la mia mente ascolta,
io ridirti non so, non c’è nota o parola.
Ti dirò: tu sei tutto il mio bene, ad ogni ora
questa grazia di amarti m’è dolce compagnia.
Potesse il mio affetto consolarti come mi consola,
o tu che sei la sola confidenza mia.

 .

Elsa Morante
da “Alibi”

 

 Immagine: Autoritratti di Elsa Morante su uno dei quaderni manoscritti di Menzogna e sortilegio

 Congedo del viaggiatore cerimonioso 

 

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.

Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.

Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.

Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.

(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.

Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.

Annetta

 

Perdona Annetta se dove tu sei
(non certo tra di noi, i sedicenti
vivi) poco ti giunge il mio ricordo.
Le tue apparizioni furono per molti anni
rare e impreviste, non certo da te volute.
Anche i luoghi (la rupe dei doganieri,
la foce del Bisagno dove ti trasformasti in Dafne)
non avevano senso senza di te.
Di certo resta il gioco delle sciarade incatenate
o incastrate che fossero di cui eri maestra.
Erano veri spettacoli in miniatura.
Vi recitai la parte di Leonardo
(Bistolfi ahimè, non l’altro), mi truccai da leone
per ottenere il ‘primo’ e quanto al nardo
mi aspersi di profumi. Ma non bastò la barba
che mi aggiunsi prolissa e alquanto sudicia.
Occorreva di più, una statua viva
da me scolpita. E fosti tu a balzare
su un plinto traballante di dizionari
miracolosa palpitante ed io
a modellarti con non so quale aggeggio.
Fu il mio solo successo di teatrante
domestico. Ma so che tutti gli occhi
posavano su te. Tuo era il prodigio.

 

Altra volta salimmo fino alla torre
dove sovente un passero solitario
modulava il motivo che Massenet
imprestò al suo Des Grieux.
Più tardi ne uccisi uno fermo sull’asta
della bandiera: il solo mio delitto
che non so perdonarmi. Ma ero pazzo
e non di te, pazzo di gioventù,
pazzo della stagione più ridicola
della vita. Ora sto
a chiedermi che posto tu hai avuto
in quella mia stagione. Certo un senso
allora inesprimibile, più tardi
non l’oblio ma una punta che feriva
quasi a sangue. Ma allora eri già morta
e non ho mai saputo dove e come.
Oggi penso che tu sei stata un genio
di pura inesistenza, un’agnizione
reale perché assurda. Lo stupore
quando s’incarna è lampo che ti abbaglia
e si spenge. Durare potrebbe essere
l’effetto di una droga nel creato,
in un medium di cui non si ebbe mai
alcuna prova.

 

(Eugenio Montale

da Diario del '72)

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prime prove per il nuovo spettacolo

Prossimamente nuove prove per la stagione autunnale

"Ho scritto una sola poesia nella mia vita e l'ho dedicata a mia moglie"

 

 

Inseguendo quel suono

 

Il suono della tua voce
coglie nell’aria
un invisibile
immobilizzandolo
in un attimo eterno.
Quell’eco è entrata in me
frantumando i cristalli fragili
del mio sospeso presente
…senza ritorno.
Dovrò cercare futuro
inseguendo quel suono
io stesso disperata eco
a ritrovarmi.

 

Ennio Morricone

Giacomo Leopardi

 

Canto XXII - Le ricordanze

 

 

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l’aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l’aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de’ servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.

 

Nè mi diceva il cor che l’età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di se, ma perchè tale estima
Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de’ malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l’allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell’arida vita unico fiore.

 

Viene il vento recando il suon dell’ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M’era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.

 

O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d’affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l’onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vóti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m’avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l’avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell’imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L’esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d’affanno.

 

E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d’angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell’acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
De’ miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai co’ silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.

 

Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia!) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

 

O Nerina! e di te forse non odo
Questi luoghi parlar? caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond’eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
E’ deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L’antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D’ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.

 

 

 

Gli uomini che si voltano

 

 

Probabilmente
non sei più chi sei stata
ed è giusto che così sia.
Ha raschiato a dovere la carta a vetro
e su noi ogni linea si assottiglia.
Pure qualcosa fu scritto
sui fogli della nostra vita.
Metterli controluce è ingigantire quel segno,
formare un geroglifico più grande del diadema
che ti abbagliava.

Non apparirai più dal portello
dell'aliscafo o da fondali d'alghe,
sommozzatrice di fangose rapide
per dare un senso al nulla. Scenderai
sulle scale automatiche dei templi di Mercurio
tra cadaveri in maschera,
tu la sola vivente,
e non mi chiederai
se fu inganno, fu scelta, fu comunicazione
e chi di noi fosse il centro
a cui si tira con l'arco dal baraccone.

Non me lo chiedo neanch'io. Sono colui
che ha veduto un istante e tanto basta
a chi cammina incolonnato come ora
avviene a noi se siamo ancora in vita
o era un inganno crederlo. Si slitta.

 

Eugenio Montale

Poesie scelte: Satura (Milano, Mondadori 1971)

Eugenio Montale
Gli uomini che si voltano
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22 aprile Giornata della Terra

Versicoli quasi ecologici

 

Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.

 

Giorgio Caproni

(da “Res amissa”)

Oggi avrebbe compiuto 83 anni Giorgio Pressburger, scrittore e regista, voce ebraica mitteleuropea, testimone del Secolo Breve.
Pressburger nasce a Budapest il 21 aprile del 1937 in una famiglia ebrea di origini slovacche, l'antica Pressburg (oggi Bratislava), dove «tutti erano imparentati», raccontava; le sue «parentele» lontane erano con Marx e Heine, come ha scoperto negli anni.
Cresce in un quartiere povero ma centrale di Budapest, quell’ottavo distretto che gli fornirà la colorita materia dei suoi primi libri, scritti insieme all’amato fratello gemello Nicola. Sfuggito allo sterminio nazista, lascia l’Ungheria dopo l’invasione sovietica del 1956, per rifugiarsi prima in un campo profughi nei pressi di Vienna e poi in Italia. Il fratello gemello Nicola va a Parma a studiare Letteratura italiana; lui a Roma, all'Accademia di arte drammatica, dove incontra Andrea Camilleri: all'inizio è stato proprio lui a farlo collaborare con il Terzo programma della Rai.
Dopo aver studiato ed essersi occupato di teatro (regista di prosa, radiofonico, di operetta, di opere liriche, e anche di cinema, ricordiamo il Calderon di Pasolini) nel 1975 si trasferisce a Trieste e la narrativa (incluse traduzioni) e quella di pubblicista diventano la sua attività principale, assieme alla direzione del Mittelfest di Cividale del Friuli e più avanti dell’Istituto Italiano di Cultura di Budapest (1998-2002).
Al romanzo arriva paradossalmente tardi, nel 1986. «Credo non mi ritenessi all'altezza di inserirmi in nessuna letteratura», spiegava; è leggendo Gimpel l'idiota di Isaac B. Singer che si decide: «Perché non prendere il caso di un pazzo vero? Così ho scritto un racconto, che appartiene al primo libro scritto con mio fratello, Storie dell'ottavo distretto. Casa mia».
Tra le altre sue opere ricordiamo ”La legge degli spazi bianchi” ( Marietti, 1989), ”L'elefante verde” (con Nicola Pressburger, Marietti, 1986, Einaudi, 2002), ”Denti e spie” ( Rizzoli, 1993), ”I due gemelli”(Rizzoli, 1996), ”La neve e la colpa” (Einaudi, 1998), ”L'orologio di Monaco” (Einaudi, 2003), ”Sulla fede” (Einaudi, 2004), ”Nel regno oscuro” (Bompiani, 2008), ”Storia umana e inumana” (Bompiani, 2013), ”Don Ponzio Capodoglio” ( Marsilio, 2017).
”In tutti i libri di Pressburger la forma racconto rimane quella più efficace. È stato infatti un grande affabulatore: amava raccontare instancabilmente storie e aneddoti. Anzi: si può dire che spesso parlasse per piccoli racconti e apologhi. Era questo un modo per risistemare e stemperare un passato che, anche per lui e la sua famiglia, era stato, sin dagli inizi, assai drammatico (durante la guerra i Pressburger si salvarono a stento stando nascosti nei sotterranei della Sinagoga). Spesso concludeva i suoi racconti con la domanda: “Quante pene o prove deve affrontare un uomo perché possa dirsi di lui: ce l’ha fatta?”. Ma poi aggiungeva con un sorrisetto amaro: “Nel Talmud si dice: non guardarti indietro. Quello che hai vissuto devi lasciartelo alle spalle”. (scrive Francesco M. Cataluccio su Doppiozero)
Nel 2013 gli è stato dedicato un film documentario dal titolo ”Messaggio per il secolo”, prodotto e diretto da Mauro Caputo. Nel 2014 da una sua raccolta di racconti è nato il film” L'orologio di Monaco”, presentato al Festival Internazionale del Film di Roma e nel 2016 da un suo romanzo, il film ”Il profumo del tempo delle favole”, presentato alla 73ª Mostra del Cinema di Venezia per le Giornate degli Autori-Venice days, entrambi diretti da Mauro Caputo ( Vox Produzioni e Istituto Luce Cinecittà) dove Pressburger è anche voce narrante e protagonista. Nel 2019 il film ”La legge degli spazi bianchi ” (diretto da Mauro Caputo, Vox Produzioni e Istituto Luce Cinecittà) che completa la trilogia a lui dedicata è stato selezionato alla 76ª Mostra del Cinema di Venezia per le Giornate degli Autori.

Sera di Pasqua

 

Alla televisione
Cristo in croce cantava come un tenore
colto da un’improvvisa colica pop.
Era stato tentato poco prima
dal diavolo vestito da donna nuda.
Questa è la religione del ventesimo secolo.
Probabilmente la notte di San Bartolomeo
o la coda troncata di una lucertola
hanno lo stesso peso nell’Economia 
dello Spirito
fondata sul principio dell’Indifferenza.
Ma forse bisogna dire che non è vero
bisogna dire che è vera la falsità,
poi si vedrà che cosa accade. Intanto
chiudiamo il video. Al resto
provvederà chi può (se questo chi
ha qualche senso). Noi non lo sapremo.

 

Eugenio Montale

(da "Quaderno di quattro anni")

La Domenica delle Palme

 

 

Hanno compiuto in questo dì, gli uccelli
il nido (oggi è la festa dell olivo)
di foglie secche, radiche, fuscelli;
quel sul cipresso, questo su l'alloro,
al bosco, lungo il chioccolo d'un rivo,
nell'ombra mossa d'un tremolio d'oro.
E covano sul musco e sul lichene
fissando muti il cielo cristallino,
con improvvisi palpiti, se viene
un ronzio d'ape, un vol di maggiolino.

 

Giovanni Pascoli

21 marzo 2020: E' ancora possibile la poesia ?

"... non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun’altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. E’ come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un’epoca sterminata, possa ancora parlarsi)."

 

Conclusione della lettura di Eugenio Montale alla cerimonia dell'assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura
12 dicembre 1975
È ancora possibile la poesia

 

 

Nove marzo duemilaventi

 

Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.

 

Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.

 

E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere -
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.

 

Adesso siamo a casa.

 

È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.

 

È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di cosmo.

 

Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.

 

Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.
Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle lentezze
delle antiche antenate, delle madri.

 

Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.

 

A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora -
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.

 

Mariangela Gualtieri

 

 

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

 

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

 

Eugenio Montale

da Xenia II 

Essere uomo ed essere poeta… Come i cani
che abbaiano alla luna per natura,
per la pazienza di star lí ad ascoltare…
Essere uomo ed essere poeta… Una paura
di essere un’aria, un soffio… dover morire…
Essere uomo ed essere poeta… Per l’oscurità
del crescere tra gli uomini, disperdersi nel patire,
per ritornare quel fischio della memoria
che la pazienza ha risparmiato nel giorno.

 

Franco Loi

Buon Natale

 

E se invece venisse per davvero?
Se la preghiera, la letterina, il desiderio
espresso così, più che altro per gioco
venisse preso sul serio?

Se il regno della fiaba e del mistero
si avverasse? Se accanto al fuoco
al mattino si trovassero i doni
la bambola il revolver il treno
il micio l’orsacchiotto il leone
che nessuno di voi ha comperati?

Se la vostra bella sicurezza
nella scienza e nella dea ragione
andasse a carte quarantotto?
Con imperdonabile leggerezza
forse troppo ci siamo fidati.

E se sul serio venisse?
Silenzio! O Gesù Bambino
per favore cammina piano
nell’attraversare il salotto.

Guai se tu svegli i ragazzi
che disastro sarebbe per noi
così colti così intelligenti
brevettati miscredenti
noi che ci crediamo chissà cosa
coi nostri atomi coi nostri razzi.

Fa piano, Bambino, se puoi.

 

Dino Buzzati

Lunedì 18 novembre, nella ricorrenza della sua nascita, ricordiamo un'alta voce poetica del '900: Attilio Bertolucci

Lunedì

 

La settimana si apre con azzurro e bianco
mobilità e suono nuvole e stormi volanti
parole portate via dal vento lasciate
cadere nel viale ad ammucchiarsi con le foglie

 

e tanto amore inutilizzabile ai confini dell’inverno
a meno di non bruciarlo fra cartoni e plateaux
schiodati con allegria dove bruniva uva
faville e fumo fanno precipitare la sera

 

e l’età unitamente così che di lagrime
ti si mescola il vino che da sempre consola
chi giunge a questi termini ferrei del giorno
e della città terrena ormai palpitante

 

d’abbracci sulle rive di fango
e sussurrante addii propizi a una notte
che ognuno dovrà affrontare solo vizio e orazione
smorendo inalimentati presso i letti raggiunti.


da Le poesie, Garzanti, 1998

Le stagioni

 

Il mio sogno non è nelle quattro stagioni.

 

Non nell'inverno
che spinge accanto a stanchi termosifoni
e spruzza di ghiaccioli i capelli già grigi,
e non nei falò accesi nelle periferie
dalle pandemie erranti, non nel fumo
d’averno che lambisce i cornicioni
e neppure nell’albero di Natale
che sopravvive, forse, solo nelle prigioni.

 

Il mio sogno non è nella primavera,
l’età di cui ci parlano antichi fabulari,
e non nelle ramaglie che stentano a mettere piume,
non nel tinnulo strido della marmotta
quando s’affaccia dal suo buco
e neanche nello schiudersi delle osterie e dei crotti
nell’illusione che ormai più non piova
o pioverà forse altrove, chissà dove.

 

Il mio sogno non è nell’estate
nevrotica di falsi miraggi e lunazioni
di malaugurio, nel fantoccio nero
dello spaventapasseri e nel reticolato
del tramaglio squarciato dai delfini,
non nei barbagli afosi dei suoi mattini,
e non nelle subacquee peregrinazioni
di chi affonda con sé e col suo passato.

 

Il mio sogno non è nell’autunno
fumicoso, avvinato, rinvenibile
solo nei calendari o nelle fiere
del Barbanera, non nelle sue nere
fulminee sere, nelle processioni
vendemmiali o liturgiche, nel grido dei pavoni,
nel giro dei frantoi, nell’intasarsi
della larva e del ghiro.

 

Il mio sogno non sorge mai dal grembo
delle stagioni, ma nell’intemporaneo
che vive dove muoiono le ragioni
e Dio sa s’era tempo; o s’era inutile.

 

Eugenio Montale

Satura II

"So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto...."  

 

Il tiro a volo

Mi chiedi perché navigo
nell'insicurezza e non tento
un'altra rotta? Domandalo
all'uccello che vola illeso
perché il tiro era lungo e troppo larga
la rosa della botta.

Anche per noi non alati
esistono rarefazioni
non più di piombo ma di atti,
non più di atmosfera ma di urti.
Se ci salva una perdita di peso
è da vedersi.


Eugenio Montale
Diario del '71 e del '72, Mondadori, 1973

Forse un mattino andando in un'aria di vetro, 
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: 
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro 
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto 
alberi case colli per l'inganno consueto. 
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto 
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

[dai Ossi di seppia, 1925]

Primo Gennaio


Primo gennaio

 

So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto.
So che si può esistere
non vivendo,
con radici strappate da ogni vento
se anche non muove foglia e non un soffio increspa
l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.
So che non c’è magia
di filtro o d’infusione
che possano spiegare come di te s’azzuffino
dita e capelli, come il tuo riso esploda
nel suo ringraziamento
al minuscolo dio a cui ti affidi,
d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
So che mai ti sei posta
il come – il dove – il perché,
pigramente rassegnata al non importa,
al non so quando o quanto, assorta in un oscuro
germinale di larve e arborescenze.
So che quello che afferri,
oggetto o mano, penna o portacenere,

brucia e non se n’accorge,
né te n’avvedi tu animale innocente
inconsapevole
di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra
e una sostanza, un raggio che si oscura.
So che si può vivere
nel fuochetto di paglia dell’emulazione
senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato
da Chi volle tu fossi…e se ne pentì.
Ora,
uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
lo scheletro dell’albero di Natale,
ti accompagna in sordina il mangianastri,
torni indietro, allo specchio ti dispiaci,
ti getti a terra, con lo straccio scrosti
dal pavimento le orme degli intrusi.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perché gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa

 

(Eugenio Montale
da Satura, Mondadori Editore, 1971)

Per B.

I piccoli aeroplani di carta che tu
fai volano nel crepuscolo, si perdono
come farfalle notturne nell'aria
che oscura, non torneranno più.

Così i nostri giorni, ma un abisso
meno dolce li accoglie
di questa valle silente di foglie
morte e d'acque autunnali

dove posano le loro stanche ali
i tuoi fragili alianti.

Attilio Bertolucci

La capanna indiana", Sansoni, 1955

Bernardo a cinque anni

 

Il dolore è nel tuo occhio timido
nella mano infantile che saluta senza grazia,
il dolore dei giorni che verranno
già pesa sulla tua ossatura fragile.

In un giorno d’autunno che dipana
quieto i suoi fili di nebbia nel sole
il gioco s’è fermato all’improvviso,
ti ha lasciato solo dove la strada finisce

splendida per tante foglie a terra
in una notte, sì che a tutti qui
è venuto un pensiero nella mente
della stagione che s’accosta rapida.

Tu hai salutato con un cenno debole
e un sorriso patito, sei rimasto
ombra nell’ombra un attimo, ora corri
a rifugiarti nella nostra ansia.

 

Attilio Bertolucci

da Le poesie, Garzanti 1990

Bernardo Bertolucci insieme al padre Attilio nelle riprese di Antonio Marchi a Casarola (Parma), durante la guerra.

                                          29 settembre 1571

"Chi dice il vero non potrà avere né riparo, né focolare e neppure patria. È l’uomo dell’erranza. È l’uomo della fuga in avanti dell’umanità."

                            LA VERA NATURA DI CARAVAGGIO

Vogliatemi bene quando non ci sarò più....

ERMANNO OLMI ERMANNO OLMI

 

 

 

 

 

 

 

             L'albero degli zoccoli

Lontano lontano…

 

Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.

 

Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.

 

Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!

 

Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.

 

E se anche potessi, o genti indifese,
ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!

 

Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi?

 

Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.

 

Franco Fortini
(da "Canzonette del Golfo")

FRANCO FORTINI
FRANCO FORTINI

                                      MEDITAZIONE

da "La Passione. Via Crucis al Colosseo" di Mario Luzi

MARIO LUZI
MARIO LUZI

 Padre mio, mi sono affezionato alla terra

 quanto non avrei creduto.

 È bella e terribile la terra.

 Io ci sono nato quasi di nascosto,

 ci sono cresciuto e fatto adulto

 in un suo angolo quieto

 tra gente povera, amabile e esecrabile.

 Mi sono affezionato alle sue strade,

 mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,

 le vigne, perfino i deserti.

 È solo una stazione per il figlio Tuo la terra

 ma ora mi addolora lasciarla

 perfino questi uomini e le loro occupazioni,

 le loro case e i loro ricoveri

 mi dà pena doverli abbandonare.

 Il cuore umano è pieno di contraddizioni

 ma neppure un istante mi sono allontanato da te.

Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi

 o avessi dimenticato di essere stato.

 La vita sulla terra è dolorosa,

 ma è anche gioiosa: mi sovvengono

 i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.

 Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.

 Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.

 Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?

 Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?

 La nostalgia di te è stata continua e forte,

 tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.

 Padre, non giudicarlo

 questo mio parlarti umano quasi delirante,

 accoglilo come un desiderio d’amore,

 non guardare alla sua insensatezza.

 Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà

 eppure talvolta l’ho discussa.

 Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.

 Quando saremo in cielo ricongiunti

 sarà stata una prova grande

 ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.

 Ma da questo stato umano d’abiezione

 vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.

 Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,

 ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.

 Qui termina veramente il cammino.

 Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.

Ma tu sai questo mistero. Tu solo.

 

 

 

Nel segno della tenerezza

Madre e figlio * Bernardino Luini
Madre e figlio * Bernardino Luini
PIERLUIGI CAPPELLO
PIERLUIGI CAPPELLO

Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una cosa sola.

                                                     

      (Eugenio Montale)

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