Ridere, certo, di ciò che è mortale.
Di noi incollati ai giorni
come zanzare alla carne.
Di tutto quanto s’incontra:
pietre e pillole per l’emicrania,
ventate improvvise, pullman troppo pieni,
verde o cemento, pavimenti, buchi neri.
Ridere, certo, e saper continuare
incostanti e dubbiosi, a volte convinti
che sia notte per sempre
o che il giorno non finisca.
Mentre la lingua si trasforma
a ogni parola pronunciata,
scritta, interpretata.
E ogni parola vale il tempo
d’una diversa sfumatura;
in qualunque linguaggio c’è il cielo,
tutti hanno un cielo personale.
Ridere, certo, d’un temporale passato.
Finché si può dovremmo farlo
anche per chi non ci riesce.
Ridere soprattutto di noi stessi,
alla fine dei conti, davanti uno specchio.
E immaginarci nemmeno puntini
per i passeggeri d'un aereo,
ombre fuggevoli viste
dal finestrino di un treno.
Siamo dentro impulsi e algoritmi,
in una foto in bianco e nero,
in un passato contadino.
Nasciamo già esistendo da tempo,
moriamo senza scomparire,
finché dura la luce del sole.
Prima di riconsegnare ogni adesso
abbiamo il dono di scegliere
cosa lasciare a chi viene.
Quest’attimo è forse la bellezza,
poter fare delle nostre mani
strappi o carezze leggere,
Il nostro essere nelle lamiere, / tra i residui, gli scoli, l’amianto, / le case mai finite, i copertoni, / e poi cieli che sembrano vergini, / pieni di luci dei tempi lontani, / gli sguardi terragni dei cani, /le volpi intraviste di notte.

 

 
Adesso lasciami stare
nel pensiero di un viaggio,
in quella leggerezza
che non riesco ad avere.
Lasciami stare qui,
tra le cose silenziose
come sono gli alberi,
le piazze a ora di pranzo.
Siamo già per metà in un domani,
richiami accennati d'altri universi,
non soltanto i legami di sangue
fanno intrecciare i nostri destini;
camminiamo lontani o più stretti
quando arriva l'ombra della fine,
tutto sembra viva dentro il sentire,
negli sguardi fraterni tra estranei.
Ho sognato le tue mani come mie,
era un misto tra ricordo e presagio,
anche adesso che il caos s'avvicina
il cremisi dei tramonti pare un lago.

 

 

Tu sei e non era dovuto,
non abbiamo motivo di credere
a una disposizione delle stelle
che ci giustifichi, ci nobiliti.
Se ti fermi in qualche momento
puoi accorgerti che ti sfiora
per una serie di coincidenze
che non sono necessità-
La lingua per chi la ignora
non vale più di un verso,
siamo qualcosa di perso
e proprio per questo prezioso.
Tu sei e non era dovuto,
hai carne e puoi inventare un’anima,
la vita che oggi ti abita
è uno squarcio, un abisso, è fortuna.

Stringere finchè possibile
la fortuna d’esserci,
se fortuna rimane.
Pregare che un temporale
ti riporti delle voci,
non ti strappi nessuno.
Provare a darsi un cammino,
lieve peso sulla schiena,
spinta sino a scomparire.

Non so la forma,
non so l’andare,
se il cielo degli angeli
sia lo stesso delle zanzare.

Casa è dove ridono i tuoi occhi,
un posto a cui tornare tutti i giorni;
non è semplice luogo il tuo profumo
che ora mi abita dentro
e in cui riposo.
Può spostarsi ovunque,
bosco e borgo,
strada di periferia, città
oppure paese.
Può essere spazio accennato
o distesa,
nel deserto o in tutte
le voci del mondo.
Può sembrare svanisca
e trova l’altrove,
rinasce nell’attimo in cui
pareva persa
come la vita che, se spezzata,
rifiorisce;
adesso casa è dove
ridono i tuoi occhi.

 

 
Scrivere è dare un nome
alla fame e al dolore.
E' baciare oltre le labbra,
fare l'amore col tempo.
E' ricredersi, sorprendere
in se stessi il bambino.
E' saper pronunciare le cose
più silenziose, più feroci.
Sfiorare grazie al dire
lo scorrere insensato,
costruirsi una ragione,
disegnare il passato.
Colpire nel centro il mondo
per quanto paia sordo,
conservare il ricordo
di ogni istante perduto.
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