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È questione di buon senso. Non credi?, dice la donna all’amica
che annuisce ma come assorta in altro.
E penso che più che buon senso un senso buono potrebbe farci strada,
essere varco verso quel piegarsi pietoso, quel corpo genuflesso in noi
che non ha nome e non si può invocare,
ma lo senti a perdifiato, lo tocchi dal rovescio.

 

(Alcuni)
 Vibrano piano, stanno in me
come un granello di sabbia
nell’ingranaggio di un orologio,
anime al macero, anime asfittiche
di case da tempo chiuse.
Si portano dentro un dio abortito.
(Altri)
Vibrano forte, stanno in me
come la mano di un padre
che ti spinge sull’altalena,
anime ariose, anime senza età.
Li abita un dio partorito ogni giorno.

Mi fa trasparente,
mi fa il tasto zero di questa cassa,
l’uomo che paga e va via senza uno sguardo,
senza sapere che c’è un modo più vero
di stare nella vita. Lo sapeva Giulio,
quando mi donava mazzetti di margherite
legati con un filo d’erba, o Jaime che
mi lasciò una rosa rossa sulla cassa e scappò via.
Lo sa Eugenio che teme io possa fraintendere
le sue intenzioni quando mi offre un caffè
o Raffaele che mi portò un bicchiere di vino bianco
fingendo fosse tè. Ed è bellezza umana e fiori e caffè
sono aria, sono ossigeno,
sono la salvezza terrena dell’anima.

Nell’aiuola del parcheggio un gatto si rotola nell’erba in pieno:
mi consola il suo essere lì, perfettamente aderente all’attimo presente.
Verde anche il mio camice in cui sto dentro poco arresa,
eppure sorrido alla donna che mi mostra la foto del nipote,
coprendo col pollice il volto della mamma
e rivolgendomi uno sguardo mesto
si giustifica mia figlia è una ragazza madre.

Mi buttava via le bambole, mi racconta Pamela di suo padre
con uno smottamento che le fa più neri gli occhi.
Ma ora che non può più farlo ne ho la stanza piena!
Amara la rivalsa in quel rullio di nave
scossa dalle onde, ma tese e gonfie le vele,
le guance paffute e lei, bambina, piange senza capire,
e si sente buttata va con le sue bambole.

Pina un metro e cinquanta di acciacchi
mi dà monete dal calore buono
e un po’ rassegnato come il suo sguardo
velato di pianto nel raccontarmi che il marito,
malato da tempo, l’ha scegliata in piena notte
e le ha detto Pina, Alberto se ne va…
E se ne è andato, come ce ne andiamo tutti,
già distanti gli uni dagli altri
per certi invalicabili silenzi.

Quando era piccola Gaia
e arrivava alla mia cassa
sul seggiolino del carrello
voleva fossi io a farla scendere.
La nonna protestava sta lavorando,
ma non l’ascoltavamo.
L’ho persa poi in quelle strade oscure
che solo somigliano alla vita.
(In quale precipizio d’anni rimasta intrappolata?
In quale diverbio tra infanzia e pubertà?
E dove è fisso ora il tuo sguardo muto?
A chi rivolgi quel tuo sorriso immobile?)
Ma poco importa se non mi riconosci
che anch’io sai non mi riconosco
e guardo estranee le mani, i gesti
sempre, sempre quelli, estranei e stanchi
anche gli occhi riflessi sotto i numeri del display.

Dice che non c’è addio nelle asole
e asola allora sia:
poca materia intorno e vuoto.
Sia passaggio e allaccio
sia lo spazio dell’abbraccio e del ritorno
sia pertugio e rifugio
sia il chiuso esposto alla parola.

Non è che l’ombra del silenzio
questa parola che irrompe
e sgorga necessaria come tutto il bene
che in questo momento è compiuto
nel basso della terra
e si misura ad altezza d’uomo.

Avrei dovuto imparare
dall’umile ritrarsi dell’ombra
al passo della luce,
prendere esempio dall’ombra lieta
dell’acqua, da quella mobile trasparenza
il vivere aderito all’obbedienza.
Ma somiglio a quell’istante in cui
anche un orologio fermo
segna l’ora esatta.
Per questo restano acerbi i peccati,
inagrestisce la coscienza nell’ovvietà
ma la necessità rincasa a dettarmi
d’un mondo sommerso
- pazienza su cui s’affila il verso.
a Damiano
Ecco lo splendore del primo giorno
dopo il buio serrato nel grido
di tutta la mia vita radunata là per accoglierti.
Ecco l’attimo del “sia la luce”
nell’aprirsi dei tuoi occhi
nel dilatarsi dei polmoni al passaggio
dall’acqua all’aria e il pianto inconsolabile dello strappo
- dopo milioni di anni impreparati ancora al nascere
così come al morire.

E in ultimo ci sono io,
esercitata al bene e alla pazienza,
io con la mia vita stretta stretta,
con i miei tanti nomi,
io che osservo assediata
da centinaia d’occhi,
che nella speranza allevo parole,
io con i miei pensieri frantumati,
mandati a capo come una cattiva poesia.
Qui ogni minuto che scorre ha un volto diverso,
una diversa cifra, grani di un immenso rosario:
ognuno con la sua muta preghiera
o la sua muta bestemmia,
che poi è lo stesso se crediamo
ci sia un dio ad ascoltare.

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