Non fu come credevi...

 

Non fu come credevi per lo scatto
del giorno innanzi che aveva turbato
la pianta gracile troppo sensitiva.
Per altro fu il singhiozzo subito:
forse l’eco risorta
d’una storia dolente;
ma certo in me s’apriva
tremenda ed umile
la voce che da sempre dura
e che ci lega, ognuno
di noi, al dolore d’ognuno anche ignorato.
Poi viene calma, e il riposo
al tuo riparo. Su la rena
onda dopo onda la marina lontana
forse suona una notte
in cui riemergono dalle profondità
sull’errante pianura
le luci fuggitive dei tesori
che i navigli salpati alle speranze
dell’Isole Felici
dispersero sull’acque.

PLUMELIA


L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.

Da Plumelia, All’insegna del pesce d’oro, 1979

 

Mobile universo di folate

 

Mobile universo di folate

di raggi, d’ore senza colore, di perenni

transiti, di sfarzo

di nubi: un attimo ed ecco mutate

splendon le forme, ondeggiar millenni.

E l’arco della porta bassa e il gradino liso

di troppi inverni, favola sono nell’improvviso

raggiare del sole di marzo.

 

da "Canti barocchi"

Se noi siamo figure 
di specchio che un soffio conduce
senza spessore né suono
pure il mondo dintorno
non è fermo ma scorrente parete
dipinta, ingannevole gioco,
equivoco d'ombre e barbagli,
di forme che chiamano e
negano un senso – simile all'interno
schermo, al turbinio che ci prende
se gli occhi chiudiamo, perenne
vorticare in frantumi
veloci, riflessi, barlumi
di vita o di sogno
– e noi trascorriamo inerti spoglie
d'attimo in attimo, di flutto in flutto
senza che ci fermi il giorno
che sale o la luce che squadra le cose.


Gioco a nascondere, i 31-48

Notturno

Hai visto come al varcare la soglia
il lume che era nella mano manca
mentre l’altra fa schermo, ha dato uno svampo
leggero del vetro se spento.
tardo il passo ne fu colpo di vento,
forse ha soffiato qualcuno, un volto
subito svaporato nell’aria?
Felpata, ovattata
densa di cortine ogni stanza, ogni vano
-solo per la notte che pensa? Imbottiture
a finestre doppie che l’aria non giri
ed anche la porta a la sua veste
di stoffa che spenga ogni stridio (rinchiuso
interno che la malinconia
di nuovo chiama opprime e la figura
annosa e i figli estremi
incandescenti al flusso giallo).
Non ebbe strisce sanguigne il tramonto,
vennero chiare le campane,
ora pende la lanterna al carretto che stenta
e in fondo alla strada sul mare
un bastimento che prende il largo
gira i suoi fuochi lontani.
E ancora due volte hai riacceso
Il lume e due volte se spento
all’entrare: una villetta,
un ventaglio di piume, una mano
che sfilò dal guanto, la falda
d’un portale che non sostenne
Il nastro? Ma non c’è nessuno
e sai che non bisogna tentare
il buio: rimemora, a nostalgie, imprevisti,
l’ombra a le ombre, meglio pregare
a questo ora, quel che gioco
sembra di giorno fa vero
di notte la notte che sogna-
penso che farai: la luna, i pianeti la rosa
Di maestrale o scirocco nei porti
lontani maree: il volume
sibillino di numeri e immagini
che muta in oro innegabile voci
smorzate all’orecchio, significazioni
di sogni, eventi. Ma i morti
non hanno cifre per i nostri tesori,
singulti hanno in noi,
veglie
di fiamme basse, aneliti
d’angoscia verso un nodo di vita
incompreso, e a volte una sera
che scende dall’alto e candori infiniti.
Parlottare fatuo nell’aria
o il buio che si cerca o sfioramenti
di matasse invisibili o altro
certo non saranno che folle,
ma è vero che per tre volte
t’hanno soffiato sul lume al passare.

E il gioco si prolunga
e il gioco non ha fine,
al nascondiglio segue
subito scoprimento,
(bolle d’aria emergiamo
su per l’albe polari
del lucernale…) batte
leggero di nuovo nell’alto,
scivola nell’interno
penetrale, e sale attraversate
baluginanti di marmi
pendenti di cristalli
o di sibille assorte
nei manti dei portali,
girano come chiatte
sovra il perno dell’ombra,
(uno spettro di stagnola
al gesto d’un fanale
striscia si frange è spento)
slungati a dismisura
sotto un divano sorgiamo
nastro esiguo, non visti
sentiamo come i morti,
o come la foglia grande
triangolare che sbuca
dai velari dell’aria
(convergenti occhi di vuoto
bocca d’un taglio)
che gira sospesa un momento
gira guarda e dispare,
e il passo è sempre più
veloce, tutt’uno con le pareti
col respiro polveroso
dei tappeti, scorre l’inafferrata
farandola, la ridda
vana che non ha centro,
e quello ch’era strillo
di gioco ora è terrore…
di minuto in minuto
s’attende che dal muto
sbadiglio dello stipo
socchiuso si levi l’archetto
del nero contrabasso…
Ma in questa fuga dal mondo illusorio
ch’eludere vuole lo spazio
in alto, in alto s’è disciolto un nodo
di limpidi astri che teneva ascoso
il nuvolame, e splende e oscilla:
una dolce lampada di riposo
brucia ancora per noi sul promontorio? 

Voce umile e perenne

Voce umile e perenne
sommesso cantico
del dolore nei tempi,
che ovunque ci giungi
e ovunque ci tocchi,
la nostra musica è vana
troppo grave, la spezzi;
per te solo vorremmo
il balsamo ignoto, le bende…
ma sono inchiodate
dinnanzi al tuo pianto le braccia
non possiamo che darti
la preghiera e l’angoscia.

sebbene tu cerchi che la tua stessa
fugacità sia l’arpa, il flauto, il ruscello,
sai che su la fronte è il segno
di una malinconia senza fine;
e se l’aria della notte che avanza
scioglie la maggiorana, i mirti,
il chiaro calice della datura
in fumo umido di fragranza,
sai che la favola sboccia,
poco dura, s’allontana,
e l’amaro e dell’ultima goccia.
Anche se il disperso ritrova
il confine, il lume notturno, il riposo,
anche se il tumulto gioioso
delle campane irrompe
nell’aria della sera,
e la corona da le gemme invernali
dolce sì curva a la primavera dei bianchi sponsali.
Ora su le colline oscure, su le curve dei monti
le terse cinture, le cacce di scintille
prende il primo scoramento che poi trascolora,
e saranno in fondo a le valli, brusio, brina,
all’eriche sonaglio di stille che vapora,
breve fluire di fonti che l’erba disperde,
che la terra densa ai raggi caldi beve.

I giorni

I giorni della luce fragile, i giorni
che restarono presi ad uno scrollo
fresco di rami, a un incontro d’acque,
e la corrente li portò lontano,
di là dagli orizzonti, oltre il ricordo,
– la speranza era suono d’ogni voce,
e la cercammo
in dolci cavità di valli, in fonti –
oh non li richiamare, non li muovere,
anche il soffio più timido è violenza
che li fra storna, lascia
che posino nei limbi, è molto
se qualche falda d’oro ne traluce
o scende a un raggio su la trasparente
essenza che li tiene
ma d’improvviso nell’oblio, sul buio
fondo ove le nostre ore discendono
leggero e immenso un subito risveglio
trascorrerà di palpiti di sole
sui muschi, su zampilli
che il vento frange, e sono
oltre le strade, oltre i ritorni ancora
i giorni della luce fragile, i giorni…

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