- La notte lava la mente.
- Poco dopo si è qui come sai bene,
- file d'anime lungo la cornice,
- chi pronto al balzo, chi quasi in catene.
- Qualcuno sulla pagina del mare
- traccia un segno di vita, figge un punto.
- Raramente qualche gabbiano appare.
- Questa felicità
- Questa felicità promessa o data
- m'è dolore, dolore senza causa
- o la causa se esiste è questo brivido
- che sommuove il molteplice nell'unico
- come il liquido scosso nella sfera
- di vetro che interpreta il fachiro.
- Eppure dico: salva anche per oggi.
- Torno torno le fanno guerra cose
- e immagini su cui cala o si leva
- o la notte o la neve
- uniforme del ricordo.
- Notizie a Giuseppina dopo tanti anni
- Che speri, che ti riprometti, amica,
- se torni per così cupo viaggio
- fin qua dove nel sole le burrasche
- hanno una voce altissima abbrunata,
- di gelsomino odorano e di frane?
- Mi trovo qui a questa età che sai,
- né giovane né vecchio, attendo, guardo
- questa vicissitudine sospesa;
- non so più quel che volli o mi fu imposto,
- entri nei miei pensieri e n'esci illesa.
- Tutto l'altro che deve essere è ancora,
- il fiume scorre, la campagna varia,
- grandina, spiove, qualche cane latra
- esce la luna, niente si riscuote,
- niente dal lungo sonno avventuroso.
- (Se musica è la donna amata)
- Ma tu continua e perditi, mia vita,
- per le rosse città dei cani afosi
- convessi sopra i fiumi arsi dal vento.
- Le danzatrici scuotono l'oriente
- appassionato, effondono i metalli
- del sole le veementi baiadere.
- Un passero profondo si dispiuma
- sul golfo ov'io sognai la Georgia:
- dal mare (una viola trafelata
- nella memoria bianca di vestigia)
- un vento desolato s'appoggiava
- ai tuoi vetri con una piuma grigia
- e se volevi accoglierlo una bruna
- solitudine offesa la tua mano
- premeva nei suoi limbi odorosi
- d'inattuate rose di lontano.
Natura
- La terra e a lei concorde il mare
- e sopra ovunque un mare più giocondo
- per la veloce fiamma dei passeri
- e la via
- della riposante luna e del sonno
- dei dolci corpi socchiusi alla vita
- e alla morte su un campo;
- e per quelle voci che scendono
- sfuggendo a misteriose porte e balzano
- sopra noi come uccelli folli di tornare
- sopra le isole originali cantando:
- qui si prepara
- un giaciglio di porpora e un canto che culla
- per chi non ha potuto dormire
- sì dura era la pietra,
- sì acuminato l'amore.
.
- Da "Onore del vero"
- Uccelli
- il vento è un'aspra voce che ammonisce
- per noi stuolo che a volte trova pace
- e asilo sopra questi rami secchi.
- E la schiera ripiglia il triste volo,
- migra nel cuore dei monti, viola
- scavato nel viola inesauribile,
- miniera senza fondo dello spazio.
- Il volo è lento, penetra a fatica
- nell'azzurro che s'apre oltre l'azzurro,
- nel tempo ch'è di là dal tempo; alcuni
- mandano grida acute che precipitano
- e nessuna parete ripercuote.
- Che ci somiglia è il moto delle cime
- nell'ora - quasi non si può pensare
- né dire - quando su steli invisibili
- tutt'intorno una primavera strana
- fiorisce in nuvole rade che il vento
- pasce in un cielo o umido o bruciato
- e la sorte della giornata è varia,
- la grandine, la pioggia, la schiarita.
- A mia madre dalla sua casa
- M'accoglie la tua vecchia, grigia casa
- steso supino sopra un letto angusto,
- forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto,
- conto le ore lentissime a passare,
- più lente per le nuvole che solcano
- queste notti d'agosto in terre avare.
- Uno che torna a notte alta dai campi
- scambia un cenno a fatica con i simili,
- infila l'erta, il vicolo, scompare
- dietro la porta del tugurio. L'afa
- dello scirocco agita i riposi,
- fa smaniare gli infermi ed i reclusi.
- Non dormo, seguo il passo del nottambulo
- sia demente sia giovane tarato
- mentre risuona sopra pietre e ciottoli;
- lascio e prendo il mio carico servile
- e scendo, scendo più che già non sia
- profondo in questo tempo, in questo popolo.
"Credi, credi di conoscermi" recita lei quasi parlando al vento
e osserva controsole la polvere
strisciare sullo stradone deserto.
"Appartieni troppo a te stesso" insiste ad accusarmi
prolungando la pena dell'indugio
quella parte di lei che ancora combatte
avvilita e altera nella macchina ferma.
Ma le suona falso l'argomento
e ne scorgo sul cristallo la larva
che spenge d'un sorriso
dimesso le parole appena dette.
"Oh di questo hai anche troppo sofferto" aggiunge poi quasi portando fiori
sul luogo, un'orticaia, dove mi ha crocifisso.
"Vanamente" mormoro più che dal rimorso
toccato da quel tono
di persistente, doloroso affetto;
e ora vorrei non le sembrasse indegno
cercare in altri la causa
del suo male, fosse pure il mio torto.
"Vanamente" e mi viene non so se dal ricordo
o dal sogno un'immagine di lei
gracile, impalata nella sua altezza, che guarda un fiume
dall'argine e, poco oltre la foce,
la lacca grigia del mare oscurarsi.
"Lascia perdere" dice lei con la voce di chi torna
dopo un'assenza di anni sul luogo stesso
e raduna le spoglie lasciate in altri tempi, dopo lo scacco.
"Perché non è in nostro potere richiamarci"
mi chiedo io sorpreso che sia lì, ferma, sul sedile accanto.
"Che intesa può darsi senza luce di speranza?
Perché la speranza è irreversibile" commenta
il suo silenzio rigido senza più lotta
mentre abbassa risoluta la maniglia
e getta un'occhiata di squincio al casamento, alto, che tra poco la inghiotte.