1. E' ancora possibile la poesia?
 

 

                             

 

II premio Nobel è giunto al suo settantacinquesimo turno, se non sono male informato. E se molti sono gli scienziati e gli scrittori che hanno meritato questo prestigioso riconoscimento, assai minore è il numero dei superstiti che vivono e lavorano ancora. Alcuni di essi sono presenti qui e ad essi va il mio saluto e il mio augurio. Secondo opinioni assai diffuse, opera di aruspici non sempre attendibili, in questo anno o negli anni che possono dirsi imminenti il mondo intero (o almeno quella parte del mondo che può dirsi civilizzata) conoscerebbe una svolta storica di proporzioni colossali. Non si tratta ovviamente di una svolta escatologica, della fine dell'uomo stesso, ma dell'avvento di una nuova armonia sociale di cui esistono presentimenti solo nei vasti domini dell'Utopia. Alla scadenza dell'evento il premio Nobel sarà centenario e solo allora potrà farsi un completo bilancio di quanto la Fondazione Nobel e il connesso Premio abbiano contribuito al formarsi di un nuovo sistema di vita comunitaria, sia esso quello del Benessere o del Malessere universale, ma di tale portata da mettere fine, almeno per molti secoli, alla multisecolare diatriba sul significato della vita. Intendo riferirmi alla vita dell'uomo e non alla apparizione degli aminoacidi che risale a qualche miliardo d'anni, sostanze che hanno reso possibili l'apparizione dell'uomo e forse già ne contenevano il progetto. E in questo caso come è lungo il passo del deus absconditus! Ma non intendo divagare e mi chiedo se è giustificata la convinzione che lo statuto del premio Nobel sottende; e cioè che le scienze, non tutte sullo stesso piano, e le opere letterarie abbiano contribuito a diffondere o a difendere nuovi valori in senso ampio « umanistici ». La risposta è certamente positiva. Sarebbe lungo l'elenco dei nomi di coloro che avendo dato qualcosa all'umanità hanno ottenuto l'ambito riconoscimento del premio Nobel. Ma infinitamente più lungo e praticamente impossibile a identificarsi la legione, l'esercito di coloro che lavorano per l'umanità in infiniti modi anche senza rendersene conto e che non aspirano mai ad alcun possibile premio perché non hanno scritto opere, atti e comunicazioni accademiche e mai hanno pensato di « far gemere i torchi  » come dice un diffuso luogo comune. Esiste certamente un esercito di anime pure, immacolate, e questo è l'ostacolo (certo insufficiente) al diffondersi di quello spirito utilitario che in varie gamme si spinge fino alla corruzione, al delitto e ad ogni forma di violenza e di intolleranza. Gli accademici di Stoccolma hanno detto più volte no all'intolleranza, al fanatismo crudele, e a quello spirito persecutorio che anima spesso i forti contro i deboli, gli oppressori contro gli oppressi. Ciò riguarda particolarmente la scelta delle opere letterarie, opere che talvolta possono essere micidiali, ma non mai come quella bomba atomica che è il frutto più maturo dell'eterno albero del male.

Non insisto su questo tasto perché non sono né filosofo, né sociologo, né moralista.

Ho scritto poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale e persino disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non potevo amare. Pochi giorni fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha chiesto: come ha distribuito tante attività così diverse? Tante ore alla poesia, tante alle traduzioni, tante all'attività impiegatizia e tante alla vita? Ho cercato di spiegarle che non si può pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c'è un largo spazio per l'inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell'inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi.

In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile.

Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce. Essa è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi tanto diversi come Croce storicista idealista e Gilson cattolico, sono d'accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia. Per mio conto, se considero la poesia come un oggetto ritengo ch'essa sia nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale (parola) al martellamento delle prime musiche tribali. Solo molto più tardi parola e musica poterono scriversi in qualche modo e differenziarsi. Appare la poesia scritta, ma la comune parentela con la musica si fa sentire. La poesia tende a schiudersi in forme architettoniche sorgono i metri, le strofe, le così dette forme chiuse. Ancora nelle prime saghe nibelungiche e poi in quelle romanze, la vera materia della poesia è il suono. Ma non tarderà a sorgere con i poeti provenzali una poesia che si rivolge anche all'occhio. Lentamente la poesia si fa visiva perché dipinge immagini, ma è anche musicale: riunisce due arti in una. Naturalmente gli schemi formali erano larga parte della visibilità poetica. Dopo l'invenzione della stampa la poesia si fa verticale, non riempie del tutto lo spazio bianco, è ricca di « a capo » e di riprese. Anche certi vuoti hanno un valore. Ben diversa è la prosa che occupa tutto lo spazio e non da indicazioni sulla sua pronunziabilità. È a questo punto gli schemi metrici possono essere strumento ideale per l'arte del narrare, cioè per il romanzo. E' il caso di quello strumento narrativo che è l'ottava, forma che è già un fossile nel primo Ottocento malgrado la riuscita del Don Giovanni di Byron (poema rimasto interrotto a mezza strada). Ma verso la fine dell'Ottocento le forme chiuse della poesia non soddisfano più né l'occhio né l'orecchio. Analoga osservazione può farsi per il Blank verse inglese e per l'endecasillabo sciolto italiano. E nel frattempo fa grandi passi la disgregazione del naturalismo ed è immediato il contraccolpo nell'arte pittorica. Così con un lungo processo, che sarebbe troppo lungo descrivere, si giunge alla conclusione che non si può riprodurre il vero, gli oggetti reali, creando così inutili doppioni; ma si espongono in vitro, o anche al naturale, gli oggetti o le figure di cui Caravaggio o Rembrandt avrebbero presentato un facsimile, un capolavoro. Alla grande mostra di Venezia anni fa era esposto il ritratto di un mongoloide: era un argomento très dègoûtant, ma perché no? L'arte può giustificare tutto. Sennonché avvicinandosi ci si accorgeva che non di un ritratto si trattava, ma dell'infelice in carne ed ossa. L'esperimento fu poi interrotto manu militari, ma in sede strettamente teorica era pienamente giustificato. Già da anni critici che occupano cattedre universitarie predicavano la necessità assoluta della morte dell'arte, in attesa non si sa di quale palingenesi o resurrezione di cui non s'intravvedono i segni.

Quali conclusioni possono trarsi da fatti simili? Evidentemente le arti, tutte le arti visuali, stanno democraticizzandosi nel senso peggiore della parola. L'arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l'uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. L'esempio che ho portato potrebbe estendersi alla musica esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove milioni di giovani si radunano per esorcizzare l'orrore della loro solitudine. Ma perché oggi più che mai l'uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se stesso?

Ovviamente prevedo le obiezioni. Non bisogna confondere le malattie sociali, che forse sono sempre esistite ma erano poco note perché gli antichi mezzi di comunicazione non permettevano di conoscere e diagnosticare la malattia. Ma fa impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo dell'attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano « datate » e il bisogno che l'artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell'attuale, dell'immediato. Di qui l'arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un'esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. Il deus ex machina di questo nuovo coacervo è il regista. Il suo scopo non è solo quello di coordinare gli allestimenti scenici, ma di fornire intenzioni a opere che non ne hanno o ne hanno avute altre. C'è una grande sterilità in tutto questo, un'immensa sfiducia nella vita. In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione. Lo è ancora oggi ma in casi piuttosto limitati. Abbiamo però casi più numerosi in cui il sedicente poeta si mette al passo coi nuovi tempi. La poesia si fa allora acustica e visiva. Le parole schizzano in tutte le direzioni come l'esplosione di una granata, non esiste un vero significato, ma un terremoto verbale con molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in molti casi può soccorrere l'aiuto dello psicanalista. Prevalendo l'aspetto visivo la poesia è anche traducibile e questo è un fatto nuovo nella storia dell'estetica. Ciò non vuoi dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni possono scrivere prose classicamente tradizionali e pseudo versi privi di ogni senso. C'è anche una poesia scritta per essere urlata in una piazza davanti a una folla entusiasta. Ciò avviene soprattutto nei paesi dove vigono regimi autoritari. E simili atleti del vocalismo poetico non sempre sono sprovveduti di talento. Citerò un caso e mi scuso se è anche un caso che mi riguarda personalmente. Ma il fatto, se è vero, dimostra che ormai esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena è espressa, mentre l'altra può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo.

La vera poesia è simile a certi quadri di cui si ignora il proprietario e che solo qualche iniziato conosce. Comunque la poesia non vive solo nei libri o nelle antologie scolastiche. Il poeta ignora e spesso ignorerà sempre il suo vero destinatario. Faccio un piccolo esempio personale. Negli archivi dei giornali italiani si trovano necrologi di uomini tuttora viventi e operanti. Si chiamano coccodrilli. Pochi anni fa al Corriere della Sera io scopersi il mio coccodrillo firmato da Taulero Zulberti, critico, traduttore e poliglotta. Egli affermava che il grande poeta Majakovskij avendo letto una o più mie poesie tradotte in lingua russa avrebbe detto: « Ecco un poeta che mi piace. Vorrei poterlo leggere in italiano ». L'episodio non è inverosimile. I miei primi versi cominciarono a circolare nel 1925 e Majakovskij (che viaggiò anche in America e altrove) morì suicida nel 1930.

Majakovskij era un poeta al pantografo, al megafono. Se ha pronunziate tali parole posso dire che quelle mie poesie avevano trovato, per vie distorte e imprevedibili, il loro destinano.

Non si creda però che io abbia un'idea solipsistica della poesia. L'idea di scrivere per i così detti happy few non è mai stata la mia. In realtà l'arte è sempre per tutti e per nessuno. Ma quel che resta imprevedibile è il suo vero begetter, il suo destinano. L'arte-spettacolo, l'arte di massa, l'arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto. Si può incorniciare ed esporre un piao di pantofole (io stesso ho visto così ridotte le mie), ma non si può esporre sotto vetro un paesaggio, un lago o qualsiasi grande spettacolo naturale.

La poesia lirica ha certamente rotto le sue barriere. C'è poesia anche nella prosa, in tutta la grande prosa non meramente utilitaria o didascalica: esistono poeti che scrivono in prosa o almeno in più o meno apparente prosa; milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla. Il mondo è in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione. Possiamo tutti collaborare a questo futuro. Ma la vita dell'uomo è breve e la vita del mondo può essere quasi infinitamente lunga.

 

Avevo pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la poesia nell'universo delle comunicazioni di massa? E' ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. Se s'intende per la così detta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un'epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c'è morte possibile per la poesia.

E' stato osservato più volte che il contraccolpo del linguaggio poetico su quello prosastico può essere considerato un colpo di sferza decisivo. Stranamente la Commedia di Dante non ha prodotto una prosa di quell'altezza creativa o lo ha fatto dopo secoli. Ma se studiate la prosa francese prima e dopo la scuola di Ronsard, la Plèiade, vi accorgerete che la prosa francese ha perduto quella mollezza per la quale era giudicata tanto inferiore alle lingue classiche ed ha compiuto un vero salto di maturità. L'effetto è stato curioso. La Plèiade non produce raccolte di poesie omogenee come quelle del Dolce stil nuovo italiano (che è certo una delle sue fonti), ma ci da di tanto in tanto veri « pezzi di antiquariato » che andranno a far parte di un possibile museo immaginario della poesia. Si tratta di un gusto che si direbbe neogreco e che secoli dopo il Parnasse tenterà invano di eguagliare. Ciò prova che la grande lirica può morire, rinascere, rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell'anima umana. Vogliamo rileggere insieme un canto di Joachim Du Bellay. Questo poeta, nato nel 1522 e morto a soli trentacinque anni, era nipote di un cardinale presso il quale visse a Roma qualche anno riportando profondo disgusto per la corruzione della corte pontifica. Du Bellay ha scritto molto, imitando più o meno felicemente i poeti della tradizione petrarchista. Ma la poesia (forse scritta a Roma), ispirata da versi latini del Navagero, che raccomanda la sua fama, è frutto di una dolorosa nostalgia per le campagne della dolce Loira da lui abbandonate. Da Sainte-Beuve fino a Walter Pater, che dedicò a Joachim un profilo memorabile, la breve Odelette des vanneurs de blé è entrata nel repertorio della poesia mondiale. Proviamo a rileggerla se questo è possibile, perché si tratta di una poesia in cui l'occhio ha la sua parte.

A vous troppe legere,
qui d'aele passagere
par le monde volez,
et d'un sifflant murmure l'ombrageuse verdure doulcement esbranlez,

j'offre ces violettes,
ces lis et ces fleurettes,
et ces roses icy,
ces vermeillettes roses,
tout freschement écloses,
et ces oeilletz aussi.

De vostre doulce halaine
eventez ceste plaine,
eventez ce sejour,
ce pendant que j'ahanne
a mon blé, que je vanne
a la chaleur du jour.

Non so se questa Odelette sia stata scritta a Roma come intermezzo nel disbrigo di noiose pratiche d'ufficio. Essa deve a Patter la sua attuale sopravvivenza. A distanza di secoli una poesia può trovare il suo interprete.

Ma ora per concludere debbo una risposta alla domanda che ha dato un titolo a questo breve discorso. Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell'uomo robot, quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l'arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della diffusione. L'incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda. Che l'orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e molti libri di poesia debbano resistere al tempo.

Diversa è la questione se ci si riferisce alla reviviscenza spirituale di un vecchio testo poetico, il suo rifarsi attuale, il suo dischiudersi a nuove interpreta-zioni. E infine resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. Molta poesia d'oggi si esprime in prosa. Molti versi d'oggi sono prosa e cattiva prosa. L'arte narrativa, il romanzo, da Murasaki a Proust ha prodotto grandi opere di poesia. E il teatro? Molte storie letterarie non se ne occupano nemmeno, sia pure estrapolando alcuni geni che formano un capitolo a parte. Inoltre: come si spiega il fatto che l'antica poesia cinese resiste a tutte le traduzioni mentre la poesia europea è incatenata al suo linguaggio originale? Forse il fenomeno si spiega col fatto che noi crediamo di leggere Po Chü-i e leggiamo invece il meraviglioso contraffattore Arthur Waley? Si potrebbero moltiplicare le domande con l'unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell'espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun'altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. E' come chiedersi se l'uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un'epoca sterminata, possa ancora parlarsi).

 

 

From Les Prix Nobel en 1975, Editor Wilhelm Odelberg, [Nobel Foundation], Stockholm, 1976

 

 

 

...mi sembra che un poeta come Montale non possa essere considerato, come si suol dire, "à la page": persino la sua battuta alla notizia del conferimento del Nobel (v. BP p. 145: Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene invece un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch'io?

 

A cura di Augusto Benemeglio

 

1.L’IDEA DEL NOBEL

L’idea e la funzione originaria dei premi “Nobel” sono state chiaramente delineate da uno dei premiati, il francese Charles Richet: “Insegnare al mondo che per ogni uomo veramente degno di essere uomo c’è un triplice ideale; di poesia, di scienza e di pace. La scienza è verità; la poesia è bellezza; la pace è giustizia.

Montale cominciò a sperare concretamente nel Nobel nel 1972, quando fu assegnato a Heinrich Boll (“ Opinioni di un Clown”, “Foto di gruppo con Signora”) e poi nel 1973, ma gli fu preferito lo sconosciuto scrittore e drammaturgo australiano Patrick White, un visionario espressionistico che avrà venduto qualche centinaio di libri o giù di lì. In entrambi i casi Montale faceva parte della famosa “rosa” dei cinque o sei.

Mel 1974 Montale ormai non ci credeva più, non era entrato neppure entrato fra i finalisti, premiarono due svedesi ex aequo, anch’essi praticamente sconosciuti, tali Jhonson e Martinson. Ma ovviamente chi assegna i premi è l’Accademia Svedese, e quindi nulla di strano che ogni tanto premino anche qualcuno dei loro. Montale pensò che ormai il treno era passato, era troppo vecchio, alla soglia degli ottant’anni, e poi per l’Italia appena ventisei anni prima avevano dato il Nobel a Quasimodo, molto sponsorizzato dalla sinistra italiana. Insomma il vecchio Eusebio si mise l’anima in pace, invece l’anno dopo, nel 1975 tornò in lizza, ma la concorrenza era molto agguerrita: c’erano nella rosa Simone De Beauvoir, Saul Bellow, Graham Greene, Leopold Sédar Senghor e nientepopodimeno che Jorge Luis Borges, insomma tutti pezzi da novanta, se consideriamo i premiati degli anni precedenti.

Il 22 ottobre arrivò una telefonata da Stoccolma con cui gli dissero che l’assegnazione del premio era quasi certa. Ma l’annuncio ufficiale sarebbe stato dato il giorno successivo verso le 13.

 

2.MARTHA LARSSON

Il 22 mattino era venuta a casa Montale, da Roma, la giornalista svedese Martha Larsson per tracciare una rapida biografia del candidato, Quando ha scritto la sua prima poesia? Montale inventò lì per lì, Avevo cinque anni e la ricordo perfettamente: “il vaso era al posto noto/ né pieno né vuoto”. Lei ha molti lettori in Svezia? Non so, disse il poeta, forse lei è più aggiornata di me. Ogni tanto mi arriva una cartolina con slitte trainate da cani, saranno quelli i miei lettori? E la giornalista annotava, ma ormai aveva capito con chi aveva a che fare, allora gli chiese, Cosa ne pensa della crisi italiana? E lui disse, Finirà bene, non ho mai visto un paese che muore perché il bilancio è in passivo, dacchè mi ricordo l’Italia è stata sempre in crisi, Mio padre diceva ai primi del secolo, è una catastrofe, non si può andare avanti, sono passati più di settant’anni e i discorsi sono sempre gli stessi. Solo al tempo del fascismo non si facevano perché non si poteva parlare. Adesso siamo arrivati all’eccesso opposto: dal mutismo alla logorrea. La giornalista concluse con la domanda classica in queste circostanze, Quale messaggio manda al mondo con la sua poesia?, Messaggi?, disse montale, i messaggi è meglio non mandarli, come diceva Conrad, che a questa domanda s’indignò. Per me la poesia è un invito alla speranza. La biondissima Martha annotò sul suo taccuino, lo richiuse, ringraziò e concluse così l’intervista di un possibile, anzi ormai probabile Nobel per la letteratura , ma la conferma ufficiale doveva essere data il giorno dopo alle ore 13, con la precisione di un orologio svizzero.

Uscita Martha Larsson, accompagnata all’uscio dalla fedele governante Gina , Montale pensò a sua moglie, la “Mosca” .Sarebbe stata contenta? , certamente , ma poi avrebbe soggiunto, Dai Eugenio , non fare il pirla , è solo una burla! E se fosse stata davvero una burla?, pensò il poeta. Lo chiamò la Gina, il pranzo era in tavolo: un piatto di riso all’olio e limone e due polpette con l’insalata. Stanotte non dormirò, disse Montale alla Gina. Ma lei quando mai ha dormito, di notte, Signor Eugenio?.

Già, è vero. Sono sessant’anni che soffro d’insonnia. Comunque sentiremo la radio domani, alle 13 in punto. Gli svedesi sono più precisi degli orologi svizzeri.

E pensò, sbucciando una pera , che tutto ciò si doveva forse al suo vecchio amico svedese , ormai novantenne, Anders Osterling, che aveva tradotto le sue poesie in svedese, e ora che l’avevano eletto presidente della Giuria per il Nobel… Sì, è vero, tutto il mondo è paese, – cominciò a ridere dentro di sé il vecchio poeta – anche in Svezia fanno le mafiette. Ma poi gli venne di nuovo il dubbio, E se poi non me lo danno il Nobel?, che figura da pirla! , disse alla Gina che, mentre sparecchiava ,lo guardò con l’affettuoso compatimento di una mamma . Si fermò e gli disse , aiutandolo ad alzarsi dalla sedia, Ora andiamo, vada a fare il solito riposino pomeridiano, Signor Eugenio . E lo accompagnò in salotto aiutandolo a sistemarsi sulla poltrona prediletta.

 

3. LA NOTIZIA UFFICIALE

E’ giovedì, 23 ottobre 1975 e al terzo piano di via Bigli, 15, a Milano, suona il telefono. Va a rispondere la Gina. Montale sta fumando in compagnia di due amici, Gaspare Barbiellini Amidei, vice direttore del Corriere della Sera e Giulio Nscimbeni, che dieci anni dopo scriverà una delle tante biografie del poeta. La Gina entra nel salotto e dice, Chiamano dall’Ambasciata di Svezia . Montale si alza dalla poltrona con un po’ di fatica ,si appoggia al braccio della governante e si avvicina al telefono. Parla in francese con l’ambasciatore svedese, si sgrana tutta una fitta serie di “oui” . Alla fine Montale dice due volte “merci” e riattacca l’apparecchio. Mi hanno dato il Nobel, dice alla Gina, che gli prende il capo e lo bacia sui capelli bianchissimi. Ora andiamo a tavola, Signor Eugenio ? Erano nella piccola stanza che precedeva la cucina, tra un vecchio frigorifero e la porta del bagno di servizio . Ancora no, risponde il poeta, fumo un’altra sigaretta con i miei amici e poi vengo. Lo aspettavano il solito piatto di riso all’olio e limone, due polpette e un po’ d’insalata. Sempre accompagnato dallal Gina tornò a sedersi in salotto, con gli amici che erano in attesa di un suo commento, felicissimi dell’evento. Erano ventisei anni che mancava all’appello un nobel italiano per la letteratura.

 

4. DOVREI DIRE COSE SOLENNI

L’ambasciatore svedese mi ha detto che scrive poesie anche lui, disse Montale tutto frastornato anche se non appariva esteriormente, tranne un tremolio della mano con cui stringeva la sigaretta. Che cosa vi aspettate, ora? Che dica cose solenni, immagino. Ma mi viene invece un dubbio, cari amici: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?

Nel frattempo la Gina , in cucina , aveva acceso la radio ( in casa era vietata la televisione) , che dava la notizia d’agenzia. A questo punto anche i due amici si alzano e vanno a vedere l’apparecchio, come per ascoltare meglio , poi d’impeto abbracciano il poeta; per loro e per tutti gli italiani era davvero un momento solenne, di gioia, che non sarebbe mai uscito dalle loro memorie. Stavano tutti in una piccola cucina, dove un esile filo d’acqua scendeva dal rubinetto per lavare l’insalata, le pareti erano vuote. S’avvertiva il senso di una distanza , di una intimità e una solitudine domestica che nemmeno il Nobel riusciva a valicare. La decenza quotidiana, sempre invocata dal poeta, continuava ad essere una lezione ardua e mirabile, e la si avvertiva tutta in quel silenzio appena rotto dalla voce della radio , in quelle stanza dove si era accumulato come un pulviscolo grigio e d’oro una lunga , lucida solitudine aristocratica e ruvida, scogliosa e vasta , tutta ligure, tutta montaliana .

Tornarono in salotto. Montale era scosso , e la mano che accendeva l’ennesima sigaretta tremava sempre di più. Invano cercava di vincere l’emozione con qualche battuta delle sue, Dovrei dire cose solenni, ripetè…ma.

Gli amici gli strinsero la mano , si congratularono di nuovo con lui , lo salutarono e uscirono. Doveva rimanere solo. Subito dopo la Gina lo venne a prendere e lo portò sottobraccio in cucina, lo fece sedere dinanzi al piatto di riso, molto cotto, e ci versò

dall’ampollina due gocce d’olio d’oliva. Ma non toccò nulla. Gli si era chiuso lo stomaco. L’emozione e il trambusto durarono qualche giorno. Poi, quando la calma ritornò, Montale infilò un foglio nella macchina da scrivere e battendo con un dito solo, l’indice della mano destra, lentamente preparò il discorso da pronunciare a Stoccolma . Il tema era inconfondibilmente suo nel dubbio e nell’avara speranza che proponeva: è ancora possibile la poesia?

 

5. VIAGGIO A STOCCOLMA

Montale arrivò nella capitale svedese la sera di domenica 7 dicembre 1975, accompagnato dalla Gina e dal critico letterario Domenico Porzio che scrisse un affettuoso diario di quel viaggio ( “Con Montale viaggio a Stoccolma”). La città fu per lui subito un incanto, il Palazzo Reale, la darsena gremita di battelli e di grida di gabbiani bianchissimi. Gli avevano detto che in un parco vivevano in libertà le volpi, tra le neve e gli alberi altissimi e avrebbe voluto vederlo, ma incombeva la conferenza stampa. E poi il clima non era adatto per la sua salute , faceva troppo freddo, c’era un vento gelido che ti ghiacciava le mani e il viso , gli disse la Gina, che lo curava e lo teneva come un santuario vivente.

Che ne pensa della notorietà della sua poesia in Svezia e nel mondo? , gli chiese un giornalista . Non saprei. E’ lei che mi dice queste cose, io non ne ho le prove, e se ci sono esse mi sono ignote”. Rimase per tre giorni tappato nelle due stanze 338 e 339 , con un salotto tra l’una e l’altra, che gli avevano assegnato , al terzo piano del Grand’Hotel, ricevendo i visitatori, parlando con Porzio e fumando molte sigarette.

Tutto era molto confortevole, e la vista, dalla vetrata, era davvero splendida: di fronte spiccavano le sagome del Palazzo Reale, del Ministero degli Esteri e del Parlamento, in basso una darsena gremita di battelli e di gabbiani.

 

E venne finalmente il giorno del Nobel, mercoledì, 10 dicembre 1975; il cielo era di un azzurro incredibile, soltanto il vento gelido ricordava il Nord. Al mattino fecero le prove , e per lui fu decisa una “variante” senza precedenti rispetto a quella che era l’etichetta. Montale non era in grado di muoversi senza dare il braccio a qualcuno, ( basta guardarlo nel filmato che si trova anche su youtube, per capire che è quasi un ectoplasma) , e la liturgia del Nobel non prevedeva che il poeta potesse avere al suo fianco un accompagnatore, ossia la fedelissima Gina che per l’occasione era elegantissima, vestita in nero e guanti lunghi. Così fu stabilito che il re Carlo Gustavo di Svezia , in persona , si alzasse dalla poltrona dorata e raggiungesse il punto dove Montale , in frac, lo aspettava in piedi. E così fu, con grande sconcerto per il pubblico. Un re che va incontro ad un premiato era una cosa che non s’era mai vista!

Prima erano stati consegnati i Nobel per la fisica, la chimica e la medicina, poi l’orchestra filarmonica di Stoccolma attaccò un motivo tratto dalle “antiche arie e danze” di Respighi. I tic del volto pallidissimo e scavato di Montale si accesero all’improvviso. L’emozione del vecchio poeta era profonda. L’uomo dei paradossi e dell’ironia cedeva il posto a una creatura affaticata, tesa, smarrita. E tuttavia , alla fine , riuscì a leggere la sua relazione.

 

6. E’ ANCORA POSSIBILE LA POESIA?

” Ho scritto poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale e persino disoccupato . Pochi giorni fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha chiesto: come ha distribuito tante attività così diverse? Tante ore alla poesia, tante alle traduzioni, tante all’attività impiegatizia e tante alla vita? Ho cercato di spiegarle che non si può pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c’è un largo spazio per l’inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi.

In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile….

 

7. ANDERS OSTERLING

In precedenza il vecchio italianista Anders Osterling, che più d’ogni altro s’era battuto in favore di Montale, aveva fatto il discorso gratulatorio: “ La poesia di Montale non viene incontro al lettore a braccia aperte…Il suo stile lirico ha assorbito un carattere durevole che sembra attinto dal severo profilo del paesaggio della costa ligure, con un mare procelloso che si abbatte contro i bastioni di rocce scoscese.”

E d’un tratto era parso al vecchio poeta che quel suo mare fosse entrato nella grande sala del Palazzo Reale per lasciare un osso di seppia, lui stesso, fragile, inutile, disperso fra l’oro delle divise fiammanti, le medaglie, i nastrini , la distesa di gente in frac lucentissimi, le preziose trine di merletti neri di tante donne bionde ed elegantissime, in mezzo al vorticare del cupo e gelido vento, e agli svolazzi della musica di Respighi. Gli sembrò che la vitrea luce accesa tanti anni prima con Ossi di seppia brillasse ora come un gioiello invisibile, qualcosa da tenere nel segreto della memoria, qualche verso da ripetere silenziosamente: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo…Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

Osterling parlò della “negatività” spesso rimproverata al poeta…Ricordò l’epoca che aveva accompagnato la parabola di Montale, una guerra mondiale, il fascismo, un’altra guerra mondiale, un dopoguerra di profondi ed inquieti rivolgimenti. “ C’è una negatività , disse, che scaturisce non dal disprezzo dell’uomo ma dal sentimento indistruttibile del valore della vita e della dignità dell’uomo.”

Erano le 17,50 quando Osterling concluse dicendo in italiano: “Caro Signor Montale… E fu allora che il re portò il diploma e la medaglia d’oro con l’effigie di Alfred Nobel fino alla poltrona davanti alla quale il poeta si era sollevato puntando le mani un po’ tremanti sui braccioli.

 

8.NON C’E’ MORTE POSSIBILE PER LA POESIA

Montale continuò , poi , a leggere la sua relazione: La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della diffusione. L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda. Che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e molti libri di poesia debbano resistere al tempo…Almeno questo è il mio augurio, questa è la mia speranza…

Avevo pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa? E’ ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. Se s’intende per la così detta bellettristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia,

anche se la poesia è in crisi, (ma io non ricordo mai di essere uscito dalla crisi ), una crisi perenne, endemica. Però oggi non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun’altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. E’ come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un’epoca sterminata, possa ancora parlarsi).

 

9. IL COCCODRILLO

A sera vi fu un banchetto con milleottantasei commensali. Il menu prevedeva mousse di rombo, gallinella delle nevi arrosto con salsa tartufata , patatine e insalata, gelato con biscotti , vino Chateau Lacaussade 1970, champagne, cognac, liquore al mandarino e caffè. Montale cominciò a ridere dentro di sé , pensando ai “coccodrilli”, ossia a quegli articoli di giornale che si tengono nell’archivio nell’eventualità della morte improvvisa di un personaggio famoso: “ Il mio coccodrillo adesso , caro Taulero Zulberti ( era il vecchio collega che lo aveva preparato) lo dovrai aggiornare”. Sorrise . E trovò dentro di sé un angolo di intimità incantevole , un senso di nostalgia per la grigia figura del misconosciuto collega , e provò pena per la sua oscura fatica, che nessuno avrebbe mai ricordato.

 

Augusto Benemeglio

"la mia poesia non è un messaggio, è un invito alla speranza"

 
(La Stampa, venerdì 24 ottobre 1975, p.3)

io e Montale...oltre la parola 

 

 Si parte dalla contrapposizione del vissuto della persona ( io ) scandito dalla poetica Montaliana (Montale)

La realtà oggettiva e la realtà poetica .

La poesia osserva e commenta la vita.

La vita si consola con la poesia e comprende il suo cammino perché la poesia glielo indica.

 

Montale quindi vissuto nell’esperienza delle nostre vite, la sua parola come parabola del quotidiano mistero che ci avvolge come nebbia che cerchiamo di penetrare, i suoi versi espressione del nostro stesso pensiero. Vissuta pertanto la poesia, non recitata, abbraccia un arco del percorso del protagonista che evoca così, grazie a un’immedesimazione con il poeta, i propri fantasmi.

 Le liriche montaliane vengono proposte con il loro  intero bagaglio di sofferenza, affrontata grazie alla più difficile delle virtù “la decenza quotidiana”, il coraggio del vivere.

“Io sono un poeta che ha scritto un’autobiografia poetica senza cessare di battere alle porte dell’impossibile. Non oserei parlare di mito nella mia poesia, ma c’è il desiderio di interrogare la vita. Agli inizi ero scettico, influenzato da Schopenhauer. Ma nei miei versi della maturità ho tentato di sperare, di battere al muro, di vedere ciò che poteva esserci dall’altra parte della parete, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge. Ho bussato disperatamente come uno che attende una risposta…
(Giulio Nascimbeni, Intervista a Montale - Gazette de Lausanne, 1965).

 

Da "La Rassegna d'Italia" 
(I, n.1, gennaio 1946) 
Intenzioni (Intervista immaginaria)

- Se ho ben compreso la sua domanda, Marforio, lei vorrebbe sapere da qual momento, e in seguito a quale causa accidentale, di fronte a quale quadro di cavalletto ho potuto esclamare il fatidico : "Anch'io son pittore!" Com'è che mi sono deciso e riconosciuto nell'arte mia, che non è stata la pittura. E' molto difficile dirglielo. Non ci fu mai in me una infatuazione poetica, né alcun desiderio di "specializzarmi" in quel senso.In quegli anni nessuno si occupava di poesia. L'ultimo successo di cui abbia ricordo in quei tempi fu Gozzano, ma gli spiriti forti dicevano male di lui, e anch'io (a torto) ero di quel parere. I letterati migliori, che presto si riunirono intorno alla Ronda, pensavano che la poesia dovesse scriversi, da allora in poi, in prosa. Ricordo che pubblicati i primi versi, nel Primo Tempo, di Debenedetti, fu accolto con ironia dai miei pochi amici (che erano già immersi nella politica, antifascisti dal più al meno, verso il '22-23). Lo stesso Gobetti che stampò il mio primo libro nel '25, non fu troppo soddisfatto quando gli mandai un articolo politico per la sua Rivoluzione liberale. Credeva anche lui… che un poeta non può e non deve intendersi di politica. Aveva torto; senza contare che io non ero ben sicuro di essere un poeta.
-…
- Se ne sono sicuro oggi? Non saprei. La poesia del resto è una delle tante possibili positività della vita. Non credo che un poeta stia più in alto di un altro uomo che veramente esista, che sia qualcuno. Mi procurai anch'io, a suo tempo, un'infarinatura di psicanalisi, ma pur senza ricorrere a quei lumi pensai presto, e ancora penso, che l'arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato. Ciò peraltro non giustifica alcuna deliberata turris eburnea: un poeta non deve rinunziare alla vita. E' la vita che s'incarica di sfuggirgli.
- … 
- Scrissi i primi versi da ragazzo. Erano versi umoristici, con rime tronche bizzarre. Più tardi, conosciuto il futurismo, composi anche qualche poesia di tipo fantaisiste, o se si vuole, grottesco-crepuscolare. Ma non pubblicavo e non ero convinto di me. Ambizioni più concrete e più strane mi occupavano. Studiavo allora per debuttare nella parte di Valentino, nel Faust di Gounod; passai poi tutta la parte di Alfonso XII nella Favorita e quella di Lord Aston nella Lucia. L'esperienza, più che l'intuizione, della fondamentale unità delle varie arti deve essere entrata in me anche da quella porta. I pronostici erano ottimi, ma quando morì il mio maestro, Ernesto Sivori, uno dei primi e più acclamati Boccanegra, mutai rotta, anche perché l'insonnia non mi dava tregua. L'esperienza mi fu utile: esiste un problema d'impostazione anche fuori dal canto in ogni opera umana. E credo di essere rimasto uno dei rari uomini d'oggi che comprenda il nostro melodramma. A quello Verdiano dobbiamo la sorprendente ricomparsa, in pieno Ottocento, di alcune vampe del fuoco di Dante e di Shekespeare . Non importa se confuso più spesso con il fuoco Vittorhughiano. 
- …
- Sì, conobbi presto (non di persona, se si eccettua Sbarbaro) alcuni poeti liguri: Ceccardo e Boine, fra gli altri. Dov' essi meglio aderivano alle fibre del nostro suolo rappresentarono senza dubbio un insegnamento per me. Ammirai la fedeltà e l'arte di Sbarbaro, ma Boine era poeta a metà e Ceccardo, che lo era per intero, non si rese mai conto dei suoi mezzi. Viveva rivolto verso il passato, sempre bisognoso di puntelli accademici. Lungi dal professarsi poeta puer diffidò troppo del fanciullo che aveva in sé. Pare nessuno dei suoi contemporanei ebbe a tratti una voce paragonabile alla sua:

Chiara felicità della riviera quando il melo si fa magro d'argenti…

-…

- Quando cominciai a scrivere le prime poesie degli Ossi di seppia avevo certo un'idea della musica nuova e della nuova pittura. Avevo sentito i Minstrels di Debussy, e nella prima edizione del libro c'era una cosetta che si sforzava di rifarli: "Musica sognata". E avevo scorso gli Impressionisti del troppo diffamato Victorio Pica. Debbo anche dire che dopo le poesie grottesche scrissi qualche sonetto tra filosofico e parnassiano, del tipo di quelli del Cena (homo) ma nel '16 avevo già composto il primo frammento tout entier à sa proie attacché : "Meriggiare pallido e assorto" (che modificai più tardi nella strofe finale). La preda era, s'intende, il mio passaggio. 
- …
- No, sapevo anche allora distinguere tra descrizione e poesia, ma ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto e che non può aversi concentrazione se non dopo diffusione. Non ho detto dopo spreco. Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo, non deve perdere quelle qualità di timbro che dopo non ritroverebbe più. Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologica determinata, un'occasione. In questo senso è prodigioso l'insegnamento del Foscolo, un poeta che non si è ripetuto mai. 
- … 
- Non mi fraintenda, ma non nego che un poeta possa o debba esercitarsi nel suo mestiere, in quanto tale. Ma i migliori esercizi sono quelli interni, fatti di meditazione e di lettura. Letture di ogni genere, non letture di poesie: non occorre che il poeta passi il tempo a leggere versi altrui, ma neppure si concepirebbe una sua ignoranza di quanto s'è fatto dal punto di vista tecnico, nell'arte sua. Il linguaggio di un poeta è un linguaggio storicizzato, un rapporto vale in quanto si oppone o si differenzia da altri linguaggi. Naturalmente il grande semenzaio d'ogni trovata poetica è nel campo della prosa. Una volta tutto era esprimibile in versi, e questi versi sembravano, e talvolta erano, poesia. Oggi si dicono in versi solo determinate cose. Non è agevole dirle quali. Da molti anni la poesia va diventando più un mezzo di conoscenza che di rappresentazione. Spesso la si richiama a un diverso destino e si vorrebbe rivederla in piazza. Ma coloro che abboccano e scendono nell'agorà sono spesso fischiati.

- … 
- No, non penso a una poesia filosofica che diffonda idee. Chi ci pensa più? Il bisogno di un poeta è la ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale. Una verità del poeta- soggetto che non rinneghi quella dell'uomo-soggetto empirico che canti ciò che unisce l'uomo agli altri uomini ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile. 
- … 

- Lei pronuncia parole grosse, caro Marforio. Direttamente io conosco pochi testi dell'esistenzialismo, ma lessi molti anni fa qualche scrittore come Scestov, un kierkegardiano molto vicino alle posizioni di questa filosofia. Dopo l'altra guerra, nel '19, mi dette molta soddisfazione l'immanentismo assoluto del Gentile, per quanto mal decifrassi l'imbrogliatissima teoria dell'atto puro. Più tardi preferii il grande positivismo idealistico del Croce; ma forse negli anni in cui composi gli Ossi di seppia (tra il 1920 e il 1925) agì in me la filosofia dei contingentasti francesi, del Boutroux soprattutto, che conobbi meglio del Bergson. Il miracolo era per me evidente come la necessità. Immanenza e trascendenza non sono separabili, e farsi uno stato d'animo della perenne mediazione dei due termini, come propone il moderno storicismo, non risolve il problema o lo risolve con un ottimismo di parata. Occorre vivere la propria contraddizione senza scappatoie, ma senza neppure trovarci troppo gusto. Senza farne merce da salotto.

- …
- No, scrivendo il mio primo libro (un libro che si scrisse da sé) non mi affidai a idee del genere. Le intenzioni che oggi le espongo sono tutte a posteriori. Ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L'espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: un'esplosione, la fine dell'inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica. All'eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza. 
- … 
- Dei simbolisti francesi sapevo quanto si può capirne dall'antologia del Van Beber e del Léautaud; più tardi lessi molto di più. Quelle esperienze erano già in aria, tuttavia; note anche a che non conoscesse gli originali. I nostri futuristi, e gli scrittori della Voce, le avevano apprese e spesso fraintese. 
- … 
- No, il libro non parve oscuro quando uscì. Alcuni lo trovarono arretrato, altri troppo documentario, altri ancora troppo retorico ed eloquente. In realtà era un libro difficile a situarsi. Conteneva poesie che uscivano fuori dalle intenzioni che ho descritto, e liriche (come Riviere) che costituivano una sintesi e una guarigione troppo prematura ed erano seguite da una ricaduta successiva o da una disintegrazione (Mediterraneo). Il trapasso alle Occasioni è segnato dalle pagine che aggiunsi nel '28. 
- … 
- E' curioso che il libro sembrasse, più tardi, a qualcuno più sano e più concreto del successivo. Pure, l'avevo scritto a denti stretti e spesso senza la calma e il distacco che molti giudicano necessario all'atto creativo. Forse l'antidoto classicistico, sempre vivo negli italiani, agiva in me. Da giovane non capivo Dostojevski e ne parlavo quasi come ne hanno parlato i rondisti. Preferivo libri come Adolphe, Renè, Dominique. Leggevo Maurice de Guèrin. E cominciai presto a decifrare qualche sonetto e qualche ode di Keats. Avevo fortissimo il senso della differenza che corre tra arte e documento; ora mi sento più cauto, più incapace di trinciar giudizi e scomuniche. 
- … 
Mutato ambiente e vita, fatti alcuni viaggi all'estero, non osai mai rileggermi seriamente e sentii il bisogno di andare più a fondo. Fino a trent'anni non avevo conosciuto quasi nessuno, ora vedevo anche troppa gente, ma la mia solitudine non era minore di quella del tempo degli Ossi di seppia. Cercai di vivere a Firenze col distacco di uno straniero, di un Browning ;ma non avevo fatto i conti coi lanzi della podesteria feudale da cui dipendevo. Del resto, la campana di vetro persisteva intorno a me, ed ora sapevo ch'essa non si sarebbe mai infranta; e temevo che nelle mie vecchie prove quel dualismo fra lirica e commento fra poesia e preparazione o spinta alla poesia (contrasto che, con sicumera giovanile, un tempo avevo avvertito anche in un Leopardi) persistesse gravemente in me. Non pensai a una lirica pura nel senso ch'essa poi ebbe anche da noi, a in giuoco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l'occasione e l'opera-oggetto bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta. Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi. Anche qui, fui mosso dall'istinto e non da una teoria (quella eliotiana del "correlativo obiettivo" non credo esistesse ancora, nel '28, quando il mio Arsenio fu pubblicato nel Criterion). In sostanza non mi pare che il nuovo libro contraddicesse ai risultati del primo: ne eliminava alcune impurità e tentava di abbattere quella barriera fra interno ed esterno che mi pareva insussistente anche dal punto di vista gnoseologico. Tutto è interno e tutto è esterno per l'uomo d'oggi; senza che il cosiddetto mondo sia necessariamente la nostra rappresentazione. Si vive con un senso mutato del tempo e dello spazio. Negli Ossi di seppia tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch'esse movimento e fuga. E anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un'altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un'esperienza come la mia. Ripeto che la lotta non fu programmatica. Forse mi ha assistito la mia forzata e sgradita attività di traduttore. Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianto. Il nuovo libro non era meno romanzesco del primo, tuttavia il senso di una poesia che si delinea, il vederla fisicamente formarsi, dava agli Ossi di seppia un sapore che qualcuno ha rimpianto. Se mi fossi fermato là e mi fossi ripetuto avrei avuto torto, ma alcuni sarebbero stati più soddisfatti. 
- ... 
- Le Occasioni erano un'arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio: non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello del pedale, della musica profonda e della contemplazione. Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre, che rappresentano la mia esperienza, diciamo così petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia (la chiami come vuole) dei "Mottetti" sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria. Il motivo era già contenuto e anticipato nelle "Nuove Stanze", scritte prima della guerra. Non ci voleva molto a essere profeti. Si tratta di poche poesie, nate nell'incubo degli anni '40/'42, forse le più libere che io abbia mai scritte, e pensavo che il loro rapporto col motivo centrale delle Occasioni fosse evidente. Se avessi orchestrato il mio tema sarei stato capito meglio. Ma io non vado alla ricerca della poesia, attendo di esserne visitato. Scrivo poco, con pochi ritocchi, quando mi pare di non poterne fare a meno. Se neppur cos si evita la retorica vuol dire ch'essa è (almeno da me) inevitabile.
- ... 
- Il libricino, con quell'epigrafe d'Aubigné, che flagella i principi sanguinari, era impubblicabile in Italia, nel '43. lo stampai perciò in Svizzera e uscì poco prima del 25 luglio. Nella recente ristampa contiene alcune poesie "divaganti". In chiave, terribilmente in chiave, tra quelle aggiunte c'è "Iride", nella quale la sfinge delle "Nuove Stanze", che aveva lasciato l'oriente per illuminare i ghiacci e le brume del nord, torna a noi come continuatrice e simbolo dell'eterno sacrificio cristiano. Paga lei per tutti, sconta per tutti. E chi la riconosce è il Nestoriano, l'uomo che meglio conosce le affinità che legano Dio alle creature incarnate, non già lo sciocco spiritualista o il rigido e astratto monofisita. Ho sognato due volte e ritrascritto questa poesia: come potevo farla più chiara correggendola e interpretandola arbitrariamente io stesso? Essa mi sembra la sola che meriti gli appunti di obscurisme mossimi di recente da Sinisgalli; ma anche così non mi pare da buttarsi via. 
- ...
- L'avvenire è nelle mani della Provvidenza, Marforio: posso continuare e posso smettere domani. Non dipende da me; un artista è un uomo necessitato, non ha libera scelta. In questo campo, più che in altri, esiste un effettivo determinismo. Ho seguito la via che i miei tempi mi imponevano, domani altri seguiranno vie diverse; io stesso posso mutare. Ho scritto sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale. Non posseggo l'autosufficienza intellettualistica che qualcuno potrebbe attribuirmi né mi sento investito di una missione importante. Ho avuto il senso della cultura d'oggi, ma neppure l'ombra della cultura che avrei desiderato, e con la quale probabilmente non avrei mai scritto un verso. Quando detti alle stampe le mie prime poesie me ne vergognai per un pezzo, ora posso parlarne quasi con indifferenza. Forse avrei fatto male a non scriverle e a non farle conoscere. Ho vissuto il mio tempo col minimum di vigliaccheria ch'era consentito alle mie deboli forze, ma c'è chi ha fatto di più, molto di più, anche se non ha pubblicato libri.

1946 
Eugenio Montale

 

"E' curioso: un libro che iniziava con quello struggente inno alla gioia per la natura che rivive ("Godi se il vento ch'entra nel pomario...") e si conchiudeva con un ancor più prepotente anelito di rinascita, in un analogo clima di fervore primaverile ("...e nel sole / che v'investe, riviere, / rifiorire !"), questo libro - Ossi di seppia appunto - è rimasto nella memoria dei più come il libro del "male di vivere".
Eppure un autore così attento, com'è Montale, alla collocazione delle poesie, specie se in posizioni così significanti come l'incipit e l'explicit di ogni raccolta, non può aver lasciato a caso, a chiusura del suo primo libro, proprio Riviere...Per il vero mi sembra che, in Ossi di seppia, alla tematica del "male di vivere" sia non tanto complementare quanto consustanziale non dirò solo l'amor vitae (tanto potente sempre in tutti i poeti al negativo, Leopardi insegna) ma la passione escatologica, che percorre, si sa, l'intero libro montaliano e in questa prima raccolta si manifesta spesso come aspettazione tesissima del cosiddetto "miracolo", del "fantasma che ti salva".
Una vita riarsa strozzata monca (in questo è il montaliano male di vivere) anela alla totalità, senza mai escludere, in una visione prettamente antideterministica, che il prodigio avvenga. Nelle petrose solitudini, nell'allucinato paesaggio che si fa parola e poesia in Ossi di seppia, la luce metafisica è insieme attesa e presenza."


Rina Sara Virgillito - La luce di Montale (Edizioni Paoline, Milano, 1990)


Renato Guttuso - Ritratto di Montale
Renato Guttuso - Ritratto di Montale

Il "bestiario" di Montale

Animali. Tanti. Compagni di vita, fugaci apparizioni, allegorie, epifanie, protagonisti dei versi o semplici riferimenti, parte di un universo variegato, mobile, palpitante, creature partecipi della natura, fondale e “limite” della poetica montaliana.

Non so chi potrà dirlo ma questo signore che mai pronunciò una parolaccia, che sempre si inchinò alle dame, che viveva del rumore dei tarli, fu l’uomo più rivoluzionario della nostra poesia»
(Giovanni Arpino, Gior. 14/9/81)

Eugenio Montale e Aldous Huxley

 

La religiosità di Montale...resta in una zona preliminare alla fede religiosa propriamente detta, nella ricerca di quella dimensione del sacro a partire da cui è possibile restituire un significato alla parola “Dio”. In questo senso è comprensibile il pudore e, vorremmo dire, la ripugnanza del poeta a nominare l’ “Impronunciabile”. Ciò può aiutarci a comprendere la sua esitazione di fronte al salto che implica la fede: 

“Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi. / Ahimè, non sono un rampicante ed anche / stando in punta di piedi non l'ho mai visto.” (Come Zaccheo)

…la testimonianza di Montale acquista un valore prezioso nel “tempo di miseria”. Proprio perché scaturisce dall’esperienza dell’abisso del nulla, della notte che incombe sull’orizzonte del mondo contemporaneo, essa costituisce uno dei simboli più acuti della crisi del nostro tempo e porta con sé un primo annuncio della salvezza. Nell’inquietudine religiosa che pervade tutta l’opera di Montale traspare, anche se a volte inutilmente esorcizzata, quell’insopprimibile aspirazione verso l’Eterno, che costituisce l’autentica grandezza dell’uomo. Anche quando il poeta sembra sfuggire all’inseguimento del”Cacciatore” divino, egli sa che in fondo, non è possibile sottrarsi alla presa dell’ “Onniveggente “:

" Astuto il flamengo nasconde
il capo sotto l'ala e crede che il cacciatore
non lo veda." (L’Altro)

Forse nessun’ altra immagine definisce con tanta aderenza la “fede combattuta” di Montale, il suo tentativo di trincerarsi dietro le astuzie di una ragione disincantata, e insieme la consapevolezza della resa finale, in cui è salvezza. 

IL NULLA E L’”ALTRO” NELLA POESIA DI MONTALE (Virgilio Fagone) - LA CIVILTA’ CATTOLICA Anno 127 – Volume I – Quaderno 3014 – 17 gennaio 1976 pag. 116 - 132

In una famosa intervista del 1975 a Giorgio Zampa, curatore di tutta l’opera poetica di Montale, compreso il testo Sulla poesia che raccoglie articoli e interviste, il poeta consegna alcune affermazioni importanti. È l’intervista in cui dice di aver scritto un solo libro, prima si è dedicato al recto poi al verso, dichiarazione che ricorda molto quella heideggeriana secondo cui “ogni pensatore pensa un unico pensiero”. Si riferisce naturalmente alla sua non enorme produzione. Nello stesso anno, nel discorso tenuto per il Nobel a Stoccolma farà un bilancio delle sue cose scritte: “Sei volumi, innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una produzione scarsa”. 
Questo è stato uno dei modi in cui il poeta è stato visto e giudicato, ha scritto poco, come se la quantità avesse in sé il valore della qualità. Questo è uno dei cliché che lo ha accompagnato insieme all’essere il poeta del ‘negativo’ e del ‘miracolo’, il poeta della vita al cinque per cento’, tutti veri ma tutti allo stesso tempo molto limitanti...Montale è poeta schivo e chiuso, un carattere che sembra stridere con l’importanza che ha assunto negli anni per la poesia italiana da quel libriccino Ossi di seppia fino al premio Nobel. Le sue parole e il suo agire sono orientate alla distanza e all’inappartenza. Non solo nella poesia in cui dichiara, apertis verbis, di non avere verità da comunicare né mondi da aprire, ma anche nelle dichiarazioni e negli atteggiamenti che da lì in avanti terrà sempre: “Non ci fu mai in me una infatuazione poetica, né alcun desiderio di specializzarmi in quel senso. In quegli anni (1910-20) quasi nessuno si occupava di poesia”. 
Parole confermate trent’anni dopo quando l’intervistatore gli chiede: “La tua diffidenza verso la categoria è rimasta?”; e lui risponde: “Come categoria sì. Ma ci sono le eccezioni. Non so se io ne sono una”...L’attesa del miracolo, dell’evento che possa chiarire un fenomeno e aprirsi a una conoscenza (l’idea che permane alla base delle Occasioni) trova corrispondenza nel kairos dei greci, termine importante per la filosofia e che si può tradurre nel momento opportuno o adatto. 
La consapevolezza di non avere più, a differenza della poesia precedente, verità da consegnare (il famoso poeta del negativo come si diceva nell’elencare i cliché su di lui) lo consegna al tempo della ‘crisi’ della metafisica, in un percorso della filosofia del secolo che partendo dal nichilismo di Nietzsche approda alla ‘scuola del sospetto’ fino a confluire da noi nel ‘pensiero debole’ di Vattimo. 
Solo una lettura superficiale lo può racchiudere in un ruolo di disimpegno o nella celeberrima torre d’avorio, in realtà la sua poesia e il suo pensiero sono intimamente legati alle problematiche e ai fondamenti del pensiero che il suo secolo gli ha consegnato...Una domanda fondamentale rimane: tra gli abitanti della lingua italiana chi abita ancora la lingua poetica di Montale? Non certo il comune teledipendente, il lettore radical-chic o il manager creativo. Forse solo i poeti. Sembra che un solco si sia creato tra la poesia e l’uomo comune, il lettore, il non addetto ai lavori, tutti coloro che fino a qualche decennio fa erano i fruitori di questa antica, religiosa e 
inutile arte della poiesis. 

Emiliano Ventura, Recensioni e critica di Autori Vari, Montale poeta malgrado (Ti con zero)

Ritratto di Montale - Guido Peyron, 1932

Maria Luisa la musa indipendente

 

Montale e le sue donne: una ricerca deludente per chi cercasse tracce di amori drammatici e sconvolgenti. Come rivela il saggio di Carla Riccardi, ogni incontro sfuma in un'aura senza tempo, ricca di simboli, letterari e filosofici, dove la cifra va decrittata. Le ispiratrici vivono «in absentia», nella lontananza del ricordo: Clizia cioè l'americana Brandeis la incontrò non più di una dozzina di volte; Dora Markus l'aveva vista in fotografia (un paio di gambe perfette sulle assi di un pontile); Esterina altrettanto («Esterina , i vent'anni ti minacciano, grigio rosea nube») e così Paola Nicoli («Tentava la vostra mano la tastiera»); Gerti Tolazzi (Il carnevale di Gerti), Anna degli Uberti (Arlette).

Mosca — ossia Drusilla Tanzi, la moglie — lo ossessionò sempre con la sua gelosia, ma lui non riesce ad allontanarla mai, vive nell'incubo dei suoi minacciati suicidi e la recupera soltanto quando è morta, nella bellissima Ballata scritta in una clinica. Nel Diario postumo si confessa non senza una punta di malizia verso chi immagina i poeti solo come personaggi romantici: «Non appartengo ai paradisi artificiali di Palazzeschi, né agli inferni lussuriosi di Ungaretti; sono un uomo che ha vissuto al 5% e appartengo al Limbo dei poeti asessuati. E guardo al resto del mondo con paura».

Ma una donna vera la incontrò e le dedicò molte poesie della Bufera: Maria Luisa Spaziani, la poetessa recentemente scomparsa, che sull'amicizia con Montale ha scritto il suo Montale e la Volpe (Mondadori). Maria Luisa della bolpe ha gli occhi azzurri e freddi, la criniera biondo rossiccia, vivacità, intelligenza e astuzia. Con lei l'amore è anche amicizia, solidarietà, uno strano sentimento forte, ma privo di quel marchio del possesso che fa la sofferenza degli amanti. Scrive Maria Luisa Spaziani: «Sodalizio è una bella parola un po' vecchia che vuol dire un'unione profonda di due creature sulla base di cose comuni. Questa base di fondo tra me e lui è stata sempre la poesia». Così lei, che pure lo ama, ha le sue storie, con un egiziano, ma la cosa dura poco, e poi con un grande intellettuale, Elemire Zolla, che sposa nel 1958.per separarsi dopo due anni. Racconta che Montale le chiese molte volte di sposarlo, ma non riusciva a staccarsi da Drusilla. Sulla copia della Bufera che le regalò scrive: «Alla Volpe che non soltanto mi regala la luce della sua giovinezza, quanto mi restituisce la mia che non ho mai avuto».

 

Paola Azzolini

I SEGRETI DEL POETA

 

Carte inedite rivelano un Eugenio Montale censore della propria biografia. La chiave per interpretare i rimandi ai suoi amori con Clizia, la Mosca e la Volpe

 

 

Eugenio Montale (1896-1981) riserva ancora oggi sorprese, scandagliando gli archivi. Si sconfina nel privato, ma è inevitabile, dato che la sua produzione è intrisa di autobiografia e non può farne a meno. L'ultima ricerca ha portato la filologa Carla Riccardi a scoperte nel Fondo Scheiwiller all'Università di Milano. Il suo Montale dietro le quinte (Interlinea, 184 pagine, 20 euro) è una raccolta di saggi che delinea fonti e suggestioni per le poesie, dagli Ossi alla Bufera. Una chiave che apre porte altrimenti chiuse. Per esempio: come giustificare il ritorno di fiamma di Montale per Irma Brandeis, la Clizia delle Occasioni, dopo che si raffreddò l'idillio con l'allontanamento di lei e il quasi annullarsi della corrispondenza? Ufficialmente la love story parte nell'estate 1933, quando l'affascinante italianista newyorkese giunge a Firenze per incontrare il direttore del Gabinetto Viesseux, appunto Montale (lei ha 28 anni, lui 37), e finisce con le lettere dell'inverno 1939. Di mezzo ci sono la promessa del poeta alla Mosca, la futura moglie Drusilla Tanzi, di dimenticare la Brandeis e un «tradimento» perché rivede l'americana a Firenze. Ma sulla liason pesa una struggente parentesi di silenzio: perché la rinuncia a comunicare?

La verità è un'altra, come spiega Carla Riccardi con un quaderno che il Nobel donò all'amico Vanni Scheiwiller, oggi nell'archivio milanese: 53 carte, scritte dal novembre 1937, che creano un singolare canzoniere amoroso. Contengono, tra gli altri, testi di Catherine Pozzi (poetessa dell'alta società parigina morta il 3 dicembre 1934, legata soprattutto a Valery, ma di origini italiane, dalla Valtellina: come la più famosa omo0nima, ma non parente, Antonia Pozzi, pure poetessa ma milanese, morta suicida e curiosamente lo stesso giorno, il 3 dicembre, ma del 1938). Ci sono poi testi di Michelangelo, Campanella, Hopkins, Tasso, de Nerval, Foscolo, Apollinaire e del poeta antifascista Cassou.

Arco cronologico ampio e disparità degli autori balzano all'occhio. Però la selezione di Montale non è caotica, è precisa. Commenta Carla Riccardi: «L'adorazione per Irma e la disperazione per se stesso non sono spente e, se non si traducono in poesia, sono forse all'origine di una diversa iniziativa, una sorta di personale antologia». Con questa, il poeta crea insomma un microcosmo criptico cosicchè può proseguire il racconto del suo amore tormentato, al riparo dalla comprensione della Mosca.

Campanella, il filosofo che finì per eresia nella fossa di Castel Sant'Elmo, rispecchia Montale recluso tra il «W.C.» (come chiama ironicamente il Gabinetto Viesseux), il fascismo e la convivenza con la Mosca. Nella sequenza dei sonetti di Hopkins e Tasso si riflette la luce soprannaturale di Clizia stilnovistica e quella tenebrosa della luna, ultima traccia dell'illusione. E nel frammento dalle Grazie di Foscolo Clizia si identifica con la Venere salvifica. Una comunione di poeti di ogni tempo che conobbero un dolore sia contigente che universale. Preda di un reale delirio amoroso, Montale si paragona a questi autori. Le presenze femminili sono le sue muse e innervano tale «romanzetto autobiografico» (così Montale definì pure i Mottetti, a lei dedicati). Cala il sipario. Infatti la Brandeis torna per sempre negli Usa, vivendo solo nelle poesie. Arriverà poi un altro amore criptato, quello per Maria Luisa Spaziani, la Volpe, riempiendo alcuni puntini di sospensione tra i testi progettati in La bufera e altro: il titolo di una sezione era dapprima «L'angelo e la volpe» con la sottosezione «Nel segno del trifoglio», titoli poi tolti. Il trifoglio rappresentava un simbolo d'intesa amorosa, come spiegato nell'epistolario privato tra i due, «clover on the river side» (12 ottobre 1949).

Ma il Fondo Scheiwiller non si ferma qui. Ci sono alcune bozze biografiche dichiaratamente ispirate al libro di Giulio Nascimbeni: puntigliose le correzioni dello stesso Montale, che censura parte del suo passato. Degno di nota e inedito è il carteggio con l'amico Ezra Pound, che tratta della modernità della poesia e della poetica illuminante di Eliot col «correlativo obiettivo», che associa sensazioni-emozioni alla poesia metafisica, tanto influenti sui versi montaliani.

 

Stefano Vicentini

A proposito di "Ossi di seppia"

 

Il primo libro, Ossi di seppia
Esce il primo libro di Eugenio Montale, Ossi di seppia, al prezzo di sei lire. Stampato a Torino dalle edizioni Gobetti per tramite di Solmi, l’amico più vicino
 
«Caro Montale, trova 200 prenotazioni o il libro non si fa»
Ci è voluto più di un anno a convincere Piero Gobetti a fare il libro: «Caro Montale, le sue poesie mi piacciono. Purtroppo però l’esperienza di altri versi mi dice che per un volume di eccezione e di gusto come il suo c’è in Italia uno scarso pubblico. Mandando ai suoi amici liste di prenotazione crede che si arriverebbe a qualche risultato? Io veramente terrei a concludere»; «Il volume costerà sulle 1500-2000 lire, forse di più. Occorrerebbero non meno di 200 prenotazioni a 6 lire, sperando che qualche copia si venda poi. Ti va?» (Gobetti a Montale). 
 
Una scorretta e brutta edizione
«Il formato dev’essere ordinario, non largo (...), la carta non sottile anche se mediocre: per la copertina mi arrendo al destino; ma almeno si usi un seppia scuro e non un arancio nel fregio; le copie di lusso (c’è da ridere a immaginarle) siano in carta ottima davvero, e in numero di 15 numerate dall’uno al quindici, con relativa dicitura nell’interno» (Montale a Giacomo Debenedetti); «Il mio libro – ancora tagliato da me – esce in scorretta e brutta edizione. Debenedetti non se n’è curato, credo, né mi ha scritto nulla. Gobetti idem» (a Bazlen).
 
Il rimprovero di Saba
Alla fine Montale è riuscito a ottenere 240 prenotazioni, 25 sono per Saba: «Spero di ricevere presto le tue poesie in 25 esemplari, e spero che ognuna di esse sarà una sola poesia, e non molte poesie in una. Questo, come ti ho detto, mi pare essere il difetto delle poesie contenute in Ossi di seppia. È in parte il difetto della giovinezza, ma anche, in parte quello della tua ispirazione artistica. Sorvegliati molto, e non abbandonarti all’affluire delle belle immagini. Le bellezze, mi ha insegnato un filosofo, sono nemiche della bellezza (Scusami)».
 
Gli Ossi passano inosservati, anche dal padre
Fatta eccezione per Solmi e Raffaello Franchi, il libro ottiene pochi applausi: «Montale studi e si raccolga» (il Regno di Torino), «eccessivo l’influsso di Paul Valéry» (Carlo Linati), «intorbida ambizione (...), fatica della forma non raggiunta» (Natalino Sapegno), «non era proprio la rivelazione annunziata» (Giuseppe Prezzolini). Il padre di Montale si rifiuta di comprare il libroperché trova eccessiva la richiesta di cinque lire da parte del libraio (né il figlio pensa di regalargliela).
 

Seconda e buona edizione degli Ossi
Esce la seconda edizione dei Ossi di seppia, per i tipi di Ribet (Torino), in 450 esemplari + 22 su carta a mano da L. 45 la copia. Il volume si apre con un’ampia introduzione di Alfredo Gargiulo. Montale scrive a Solmi: «Gli Ossi sono usciti: l’edizione è buona a giudicare dall’edizione di lusso che ho avuto; non ho visto le altre (...)».
 
Corriere della sera.it - CINQUANTAMILA GIORNI - La storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

"Ecco tutto."

Montale spiega la tematica degli Ossi di seppia

 

"I miei motivi sono semplici e sono: il paesaggio (qualche volta allucinato, ma spesso naturalistico: il nostro paesaggio ligure, che è universalissimo); l'Amore sotto forma di fantasmi che "frequentano" le varie poesie e provocano le solite "intermittenze del cuore" (gergo proustiano che io non uso) e l'evasione, la fuga dalla catena ferrea della necessità, il miracolo, diciamo così, laico ("cerco la maglia rotta"ecc.).Talvolta i motivi possono fondersi, talora sono isolati. Nulla di più semplice; se può esservi qualche oscurità, certo non è voluta di proposito, né amata da me. Non mi sento responsabile delle malefatte della "nuova poesia" e non le approvo. Se pecco, pecco senza volere e sapere. Ecco tutto. Non mi riconosco in esegesi più complicate di questa: ma certo si deve anche tener conto dei miei difetti, che io non posso giudicare."

 

da una cartolina postale a Piero Gadda Conti

L’incontro di Montanelli con Montale del 1952
anno 1952

Tratto da Incontri di Indro Montanelli, Rizzoli 1961


Il più grande poeta contemporaneo italiano sono forse tre. Due non sono sicuro come si chiamino; ma uno è, certamente, Eugenio Montale.  
 
Mi ama, Montale, o mi detesta? Il problema ha una qualche importanza, visto che lavoriamo non solo nello stesso giornale, anzi nella stessa pagina dello stesso giornale; ma anche nella medesima stanza, lui di qua, io dì là da una scrivania a doppia piazza, e per varie ore al giorno tutte le volte che alzo gli occhi dalla macchina da scrivere incontro i suoi, e ogni volta che lui alza i suoi incontra i miei. 
 
Le prime volte che ciò accadde, tentai di sorridergli; ma è difficile sorridere a Montale. Sul suo volto chiuso la cordialità scivola via come acqua su una lastra di marmo. Il suo sguardo cupo e astratto non tradisce emozioni, sentimenti di sorta. Può fissarti per un’ora di seguito, e non riuscirai mai a capire se sta cercando sul tuo volto una liscia superficie per accarezzarla o l’incavo più adatto ad appoggiarvi la canna della rivoltella. Con una mano regge la sigaretta, con l’altra ne scote dal bavero la cenere chevii è caduta. Poi, d’un tratto, mugola, scandendo bene per far sentire il decasillabo: «Gatto, De Libero, Ungaretti e Saba», cioè i nomi di quattro altri poeti, ognuno dei quali è forse convinto di essere il più grande poeta italiano. «Gatto, De Libero, Ungaretti e Saba», ripete Eugenio dopo un’altra mezz’ora di silenzio, occupata a fissarti, a reggere la sigaretta accesa con la destra e a scoterne dal bavero la cenere con la sinistra. Poi fa passare ancora un quarto d’ora, e ripete: «Gatto, De Libero, Ungaretti e Saba». Lo ridice dopo dieci minuti, poi dopo cinque, e infine in continuazione: «Gatto, De Libero, Ungaretti e Saba...», con un debole tentativo ora, anche, di musicare il verso secondo differenti arie, che finalmente si precisano e fondono in quella delBarbiere di Siviglia: «Fortunatissimo per carità...». A questo puntoMontale è soddisfatto, ripete sempre su quel motivo: «Gatto, De Libero, Ungaretti e Saba...», quattro, cinque, venti volte; smette di frugarsi dentro il naso dove evidentemente lo andava cercando; e, alzatosi, va a fare tre o quattro passi su e giù per il corridoio. 
 
Montale è il più scrupoloso redattore del Corriere, dove svolge unlavoro che potrebbe benissimo fare anche a casa. Egli rispetta l’orario del giornale con la stessa puntigliosa asburgica regolarità con cui qualunque altro genovese suo compatriota rispetterebbe quello dello scagno. Sale lo scalone con lento passo, guardando a terra per timore d’incontrare qualcuno, magari un fattorino, e di dover risolvere il problema, per lui complicatissimo e angoscioso, di aspettarne il saluto o di rivolgerlo per primo. Non ch’egli abbia dei dubbi sulla sua qualità di più grande poeta contemporaneo italiano; quello di cui non è sicuro è se il più grande poeta contemporaneo italiano abbia il diritto di esser salutato o il dovere di salutare magari l’ultimo scagnozzo che passa. E se il bidello, vedendolo entrare, gli dice che il direttore lo ha cercato e lo aspetta,impallidisce di sgomento: il direttore!?... Oh, Dio! Che mai vorrà il direttore!?... Propinargli un cicchetto!?... Licenziarlo!?... Appende con mani tremanti l’impermeabile, il cappello e il parapioggia all’attaccapanni, e va. Di lì a un po’ riappare, rasserenato. Il direttore voleva semplicemente complimentarlo per lo splendido articolo che proprio oggi egli ha pubblicato su Auden. E Montale è felice come uno scolaretto che ha preso nove nel compito in classe. Perché colui che non ha dubbi sulla sua qualità di più grande poeta contemporaneo italiano, ne ha invece moltissimi sulla sua qualità di delizioso saggista dal gusto infallibile, dal tocco delicato e dall’humorfrizzante. «Gatto, De Libero, Ungaretti e Saba...», gorgheggia in sordina. Stavolta ha trovato subito il motivo, senza essere costretto a ricercarlo con una ripetuta declamazione del decasillabo. Siede alla macchina da scrivere,vii infila un foglio, e comincia a battere con un dito solo, l’indice della mano destra. Non è rapidissimo nel comporre, ma lo fa senza pause ne impennamenti. Può scrivere un elzeviro in un’ora e mezzo, due al massimo, riempiendolo delle più intelligenti cattiverie. A un tratto, però, si ferma, posa su di me uno sguardo cupo e astratto, e mugola sordamente: «Io non capisco perché, per sfottere uno, si debba dire che è un bel giovane. E con questo? Io vorrei esserlo, giovane e bello... Mi piacerebbe moltissimo esser giovane e bello... Lo riconosco...». E cancella l’ultima riga in cui appunto, per sfottere uno, stava dicendo che era un bel giovane. «Gatto, De Libero, Ungaretti e Saba...», mugola alla vana ricerca dell’aria del Barbiere che gli è sfuggita di mente. 
 
Tuttavia, invece che poeta e giornalista, Montale avrebbe voluto e dovuto essere baritono. Scherza, quando dice che era questa la sua vera passione e vocazione? Ne ho sempre dubitato. Nei momenti di buonumore Eugenio ironizza col suo tetro umorismo sul melodramma, ma ne conosce a fondo il repertorio. Non c’è distico di Illica o strofetta di Metastasio ch’egli non tenga a memoria e non sappia ripetere sull’aria che Verdi e Puccini hanno loro prestato. Canta bene, con voce morbida e pastosa, anche se in sordina, perché ha studiato canto per davvero, per molti anni, e mi dicono che il suo maestro, entusiasta, lo designava quale successore di Titta Ruffo. Ma, dopo aver studiato ben bene, sul palcoscenico non salì mai. C’è chi dice che lo trattenne il suo vigile sense of humour, c’è chi dice che glielo proibirono i suoi terribili complessi. Montale, di complessi ne ha, e basta andare a pranzo con lui per accorgersene. Si rovescia addirittura sul piatto, ossessionato dall’idea di non riuscire a portarsi alla bocca il cucchiaio o il bicchiere, che regge sempre con ambedue le mani tremanti, senza osare di alzar lo sguardo sui commensali. L’angoscia gli paralizza anche il cervello, in quei momenti, sicché egli non riagguanta la parola e le sue battute piene di macabra ironia che dopo il caffè, quando accende la prima delle sue cinquanta sigarette pomeridiane. Allora, dopo una congrua sillabazione di: «Gatto, De Libero, Ungaretti e Saba...» che può protrarsi anche per alcuni quarti d’ora, Eugenio ritrova i suoi spiriti e soprattutto il suo spirito; e, abbandonata la briglia sul collo della sua cattiveria, la lascia correre a piacere, ma sempre scansando il fossato della volgarità. 
 
Eccolo che sale lo scalone con lento passo e in punta di piedi, mentre all’orologio battono nove rintocchi. Avanza lungo il corridoio, dignitosissimo, proprio con l’aria del più grande poeta contemporaneo italiano, ma sogguardando imbarazzato coloro che incrocia, e un po’ sospettoso dell’ossequio che tutti gli dimostrano. Lo vedo avvicinarsi verso la nostra stanza e mi preparo a dirgli: «Buongiorno, Eugenio!» prima che lui lo dica a me, quando ecco che si ferma dinanzi all’ufficio del segretario di redazione, Borelli, che sta dettando qualcosa. Ma a chi lo detta? È la domanda che si pone, evidentemente, Montale, vedendo che nell’ufficio Borelli è solo. Non osa entrare perché l’altro, non avendolo visto tutto impegnato com’è nel suo monologo, non gli ha rivolto un cenno d’invito. Col cappello e il parapioggia in mano, Eugenio si sposta ora sullo stipite destro, ora su quello sinistro nel vano tentativo di scoprire lo stenografo o la stenografa che, evidentemente, dovrebbe raccogliere e fissare le parole di Borelli. Ma per quanto, messosi ginocchioni, Montale frughi con lo sguardo anche sotto la scrivania e dietro l’uscio, non scorge nessuno; e resta lì, basito, a fissare Borelli col vago sospetto che gli abbia dato di volta il cervello. Finché il monologheggiatore si avvede di lui e, scorgendolo a quattro zampe per terra (il più grande poeta contemporaneo italiano!), a sua volta lo fissa sorpreso: «Che c’è, Montale, ha perso qualcosa?». «No, no», fa Eugenio arrossendo, «cerco soltanto di scoprire a chi diavolo sta parlando». Borelli ride. Stava parlando al dittafono e glielo mostra illustrandogliene la comodità. Non avrà più bisogno d’ora in poi di disturbare nessuno, per dettare le lettere. C’è il filo che se ne incarica. Esso registra e fissa la voce in una specie di disco che lo stenografo, poi, farà girare traducendo per iscritto le parole che udrà. 
 
«Montale ascolta, con aria profondamente ammirata. Registra qualunque voce, codesto aggeggio?», chiede dopo un po’. «Certo!», risponde Borelli. «Registrerebbe anche la mia?», insiste il poeta. «Ma naturalmente!». Montale riflette un poco con aria cupa, poi fa un passo dentro la stanza. Si rigira per un pezzetto il cappello e il parapioggia tra le mani, e alla fine timidamente azzarda: «Mi piacerebbe sentire la mia voce, che dicono dotata di un buon accento baritonale... Io ho studiato canto, sa... Ma chi sente la propria voce? Nessuno... Quella mia mi piacerebbe sentirla per vedere se proprio...». Borelli gli porge giovialmente quella specie di tubo che teneva in mano. «S’immagini, caro Montale, provi pure... Dica qualcosa e poi...». 
 
Un lampo di gioia guizza sul volto solitamente cupo di Montale, che, prima di prendere l’ordigno dalle mani di Borelli, si sfila l’impermeabile, lo appende col cappello e il parapioggia all’attaccapanni, si schiarisce la gola, si allenta il nodo troppo stretto della cravatta come se si preparasse a un impegnativo esercizio ginnastico. Poi, portatosi il tubo all’altezza della bocca, tira il fiato e immobilizza lo sguardo sulla bacchetta alzata di un Toscanini che solo lui vede e da cui aspetta, evidentemente, un segnale di avvio. 

Ecco che lo ha avuto, a quanto pare, e: «II baleeen del suo sooorriiii-i-i-so deella steeellaaa vi-i-i-inceee il ra-a-aggiooo», attacca a piena fragorosissima voce, fisso l’occhio nel vuoto, correttamente intelito e immobile il busto, come se fosse dinanzi al pubblico di una prima. Borelli si è rincantucciato in fondo alla sua poltrona fissandolo con espressione di sbigottito terrore; da tutte le altre porte che danno su quel corridoio solitamente deserto e silenzioso sono scivolati furtivamente fuori redattori, impiegati, inservienti, sorpresi nel loro abituale lavoro dallo scroscio a valanga di quella bellissima, ben modulata, calda voce baritonale. Perfino il direttore, nonostante la doppia porta, ha sobbalzato sulla sedia ed è accorso come gli altri a vedere... A vedere Montale che, sempre nel suo ieratico atteggiamento di solista a una prima, sembra librarsi sul proprio canto come su un paio d’ali che lo innalzino fuori portata dell’orecchio e della vista degli uomini, in una irraggiungibile solitudine. E tutti si guardano tra loro trasecolati, nessuno osando interrompere il più grande poeta contemporaneo italiano, l’eminente collega scrupoloso dell’orario, che incontrando si saluta per primi e a cui ci si rivolge col lei, tale e tanta è la dignità che ne emana. 
 
Montale canta la romanza sino in fondo, senza accelerarne né rallentarne il ritmo, restituisce il tubo a Borelli con un: «Grazie!» cortese, riprende il cappello, l’impermeabile e il parapioggia, passa in mezzo alla fila silenziosa di coloro che lo fissano con occhi tuttora sbigottiti tenendo i suoi a terra, per evitare il problema, per lui complicatissimo e angoscioso, di aspettare il saluto o di rivolgerlo per primo, torna nella stanza nostra, siede alla macchina da scrivere, v’infila un foglio, mugola: «Gatto, De Libero, Ungaretti e Saba... Gatto, De Libero, Ungaretti e Saba...», e mi fissa col suo sguardo cupo e astratto che non tradisce emozioni, sentimenti di sorta. Per cercare sul mio volto una liscia superficie da accarezzare, o l’incavo più adatto ad appoggiarvi la canna di una rivoltella?

  Indro Montanelli

LUZI SU MONTALE

… Montale…tende a una poesia  esplicita con mezzi  del tutto interni; esprime una crisi della conoscenza, divenuta provvidenzialmente crisi dell’esistenza, ne trae conclusioni che vanno al di là del contegno intellettuale:  ma si affida all’imponderabile dei suoi soprassalti di vitalità, alle incursioni della memoria e dei desideri  frustrati;  e insomma obbedisce alla sua vicissitudine umana che, repressa,  non ha perduto ma forse acquistato potenza. Il tumulto che si produce tra la diffidenza metafisica e il desiderio vitale che urge e scatta cerca una risposta, ma trova tutt’al più una sospensione nelle frasi e negli oggetti-sintomo che, posti come evidenze, sono in realtà delle incognite.  Tutto questo può significare che Montale è un poeta interrogativo più che asseverativo, nel sì o nel no non importa: ma certamente dimostra  il carattere intrinseco , determinato,  del suo discorso che pure ha una portata estrinseca e generale… Tutto dunque concorre all’immagine di un universo personale molto compatto che non scelto, ma perfettamente dominato, trova nella sua puntualità espressiva perfino di compensare il suo dramma irrisolto – o risolto solo sul piano della moralità e dell’autocoscienza – con i tono divertiti della commedia o per lo meno dell’allegro, mostrandocene quasi la riprova dal suo rovescio. Montale in questo senso è una delle grandi monadi del  Novecento…

Mario Luzi - Montale, la compiutezza dell’arte  (da “Vicissitudine e forma” – Rizzoli 1972) 

Montale alle otto della sera
Prima puntata: Iride
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Montale alle otto della sera
Seconda puntata: Primavera hitleriana
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Montale alle otto della sera
Terza puntata: Voce giunta con le folaghe
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Montale alle otto della sera
Quarta puntata: Piccolo testamento
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Montale alle otto della sera
Quinta puntata: Il sogno del prigioniero
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Montale alle otto della sera
Sesta puntata: Botta e risposta 1
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Montale alle otto della sera
Settima puntata: La storia
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Montale alle otto della sera
Ottava puntata: Botta e risposta 2
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Montale alle otto della sera
Nona puntata: Botta e risposta 3
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Montale alle otto della sera
Decima puntata: L'angelo nero
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Il Novecento dei ricordi, un secolo lungo

 

La malizia della Rodocanachi, gli scherzi di Montale, le gambe di Dora Markus 

Chi conosce ancora Lucia Rodocanachi? E Camillo Sbarbaro? E Luciano Foà ? La traduttrice, il poeta ligure per eccellenza, il grande editore, fondatore della Adelphi. Sono tre nomi scelti a caso tra i tanti che affollano il libro di Giuseppe Marcenaro,Testamenti (sottotitolo: Eredità  di maà®tresse, vampiri e adescatori, Bruno Mondadori editore). Scelti a caso per dire quanto quelle persone, un tempo neanche troppo lontano al centro della scena culturale italiana, appaiano oggi come ombre, fantasmi provenienti da lontananze archeologiche.

Il tempo ha questo tratto curioso: probabilmente Manzoni era molto più vicino a Montale di quanto lo stesso Montale lo sia a noi. Eppure l’anagrafe dichiara il contrario. Il bello di libri come quello di Marcenaro è che ogni strabismo viene miracolosamente annullato. Perché lo stile dei ritratti ci fa apparire quei personaggi come persone vivissime, pur senza strapparle dal loro tempo. Che non è il nostro. Vicinanza e distanza. Il libro intreccia il flusso del racconto memoriale e i documenti (anche fotografici), cartoline, disegni, lettere finora rimaste nei cassetti. Sono i testamenti che compongono un’eredità  ideale di amicizie, «presenza volatile di chi non c’è più».
Si parte con un’immagine montaliana: i grilli del focolare, quelli che, rintanati nei ceppi di ulivo, finivano in un caminetto esalando «estremi cri-cri». Tutto un gioco di specchi letterari: nella stanza del camino c’era pure Lucia Rodocanachi, la donna che aveva letto tutti i libri del mondo (preferibilmente in lingua originale), la négresse inconnue, la negra sconosciuta che traduceva per i suoi amici letterati (Montale ma anche Vittorini e Gadda), sempre rimanendo nell’ombra. Conobbe Eugenio-Eusebio quand’era direttore del Vieusseux, e ne approfittò per chiedergli l’invio di numerosi romanzi che restituiva con scarsa puntualità : tra i due ci fu un trasporto di tenerezza, complicità  affettuosa, senza amore ma con un po’ di malizia. A lei Montale affidò scherzi, ciarle e maldicenze, come quella registrata in una lettera a proposito di una «noiosissima cena» con Gianna Manzini, «ricchissima di ricordi d’amore pederastici da parte dei suoi amici». Bello il ricordo degli ultimi giorni della Rodocanachi, confortati da Ilde, una straordinaria cuoca: «Morì il 22 maggio 1978, nel tardo pomeriggio. Piovigginava. Faceva caldo. L’aria pesante. Nella notte, sul davanzale della camera ove Lucia era composta, venne a posarsi una civetta. Compì due o tre piccoli passi e poi volò via. Perdendosi nel buio, oltre gli ulivi». 
Sempre Montale. A pagina 38 troviamo le famose gambe di Dora Markus. E da lì parte il racconto ravvicinato delle muse montaliane: Irma Brandeis, ovvero Clizia; e Arletta, Esterina, Gerti, la Mosca, la Volpe. «Un femminaio, la cui sorte non fu mai il talamo»: Carlo Bo, che lo conosceva bene, annota Marcenaro, «raccontava che Montale avrebbe ambito a una esistenza tranquilla, a Genova. Quella di un piccolo borghese nella sua città  (…). Magari un matrimonio incolore che gli consentisse il decoro». In effetti, nonostante le promesse, Eusebio non raggiunse mai Irma in America. A pagina 69, c’è un delicato ritratto di Esterina Rossi, sbarazzina ottantenne: «Minuta, sembrava quasi sparire nel sofà  fiorato del salottino della sua casa, alle cui pareti stavano i lari di una vita: i pastelli di Montale». A proposito di muse, Marcenaro rievoca la polemica scatenata sul «Corriere» nel 1997 da un intervento di Dante Isella sull’inautenticità  del Diario postumo allestito da Annalisa Cima e considerato un «fendente» tirato a se stesso dal poeta medesimo.
I rapporti complicati con Giovanni Ansaldo, il caporedattore del «Lavoro», punto di riferimento della Genova gobettiana, «celebre per il sarcasmo, ruvido come una carta vetrata», vengono narrati con ironia. C’è un aneddoto dei primi anni Venti che illustra al meglio il carattere dei due. Lo raccontò Emilio Servadio: «Un giorno Montale mi fece leggere un manoscritto di due o tre delle sue poesie, estratte furtivamente da una tasca, e messe sotto i miei occhi con un anticipato commento deprecativo, nella maniera semiburbera e bofonchiante ben nota a chi conosce il poeta. Rimasi molto colpito, e gli dissi semplicemente che a me quei versi sembravano bellissimi. La mia dichiarazione fu accolta con un “bah!” e una mezza alzata di spalle (…). Quando uscì Ossi di seppia ebbi il coraggio di portare un articolo sul libro a Giovanni Ansaldo, per “Il Lavoro”. Ansaldo me lo restituì subito, strepitando ” con la sua voce nasale ” che io ero matto a elogiare in tal modo un libretto di versi. “Lei ne scrive come si trattasse di un nuovo Leopardi”, aggiunse indignatissimo». 
Nel ’29 Ansaldo descrisse il poeta come uno cui «pare che il mondo lo disgusti e lo spaventi». 
Ancora Lucia, ad Arenzano. Ma questa volta con Carlo Emilio Gadda. A pagina 88 troviamo la stilografica Omas con la quale l’Ingegnere scrisse La cognizione del dolore: un omaggio offerto alla Rodocanachi. Gadda aveva concepito le pagine satiriche sull’architettura razionalistica proprio nella casa di Lucia. Ma poi fu preso da uno dei suoi scrupoli paranoici quando si ricordò che quella casa era stata progettata dal marito della Rodocanachi, architetto à  la page. Non fosse mai che loro pensassero… Scrisse scusandosi, a prescindere: «Il mio bersaglio è la stupidità : non le cose ben fatte. E, se avessi dei soldi, mi farei una casa press’a poco come la loro». Inutile aggiungere che la Omas, reperto «silente e arcano», fu regalata dalla vecchia Lucia allo stesso Marcenaro per diventare «uno dei concreti fantasmi della concupiscente erraticità  della memoria».
La memoria erratica di Marcenaro ci porta ad altri testamenti con rispettivi «legati»: a Genova una conferenza dantesca di Luzi, interrotta dal rumoreggiare del pubblico, irritato dall’eccessivo dilungarsi dell’oratore; l’ottantenne Carlo Betocchi, che «si prodigava per passare il testimone con naturalezza, come se cercasse la continuità  della sua opera in quella delle generazioni future»; Giorgio Voghera incontrato a Trieste. Sbarbaro, il poeta cercatore di licheni, lo vediamo in fotografia a pagina 134, su un terrazzino dietro vasi di gerani in fiore: «Depresso? Quando mai? ” scrisse la sorella Clelia ” Millo era allegro e spiritoso». Luciano Foà , che solo dopo 25 anni di amicizia dice a Marcenaro: «Potremmo cominciare a darci del tu». Parlava lentamente, Foà , ma con chiarezza: Montale, secondo lui, fingeva di ignorare l’Adelphi. Come mai? «Ha sempre pensato che ci fossimo appropriati dell’amicizia di Bobi (Bazlen) che lui riteneva esclusiva…». Infine, a pagina 178, c’è un uomo in tuta, biondiccio, occhi azzurri e naso da pugile, spalle imponenti, enorme. Sente suonare alla porta. Apre. È una ragazza che vuole proporgli un’inchiesta sulla lettura. Forse scambia l’uomo enorme per un metalmeccanico in pensione. «Quanti libri acquista più o meno?». Risposta: «Cento». Sorpresa: «Cento libri l’anno!?». Replica calma: «No, in un mese». L’uomo in tuta era Giuseppe Pontiggia, il sommo Peppo. 
Le eredità  raccolte da Marcenaro sono ora eredità  per tutti.

Paolo Di Stefano - Corriere della Sera - 19 dic 12 

Nomi in codice: Volpe, Mosca, Gerti, Clizia… Un libro indaga sulle donne vicine al grande poeta. Tra molta ispirazione, tanti segreti e poco sesso.

 

Era nelle cose. Ci voleva qualcuno che compilasse, con speciosa iconografia, un catalogo delle donne di Eugenio Montale. Donne ispiratrici. Compagne di strada. Femmine ammirabili, angelicate e complici. Nella compilation (Giusi Baldissone, Le muse di Montale, Interlinea, pp. 120, euro 15) non vi sono scoop. Con diligenza accademica vengono elencate, una dopo l’altra, le figure femminili che hanno incrociato l’esistente di uno dei maggiori poeti italici del Novecento.

Senza sussulti, si evitano colpi al cuore e svelamenti clamorosi. Con l’uomo degli ossi di seppia non si è però mai certi. E qualcuno è sempre pronto a fargli le bucce, rinverdendo insane marachelle. Questo perché nella costruzione del proprio ingarbugliato femminaio, innocente fino in fondo Montale proprio non fu. Anzi, sornionamente depistando i critici, soprattutto a futura memoria, predisponendo letterine, potins, rebus e calembours vari, di mano sua intrecciò la ghirlanda delle ispiratrici. Diede luogo, chissà per quale sotterraneo impulso, alla leggenda delle muse collocando ciascuna femmina in un tratto di opera poetica. Cosa che connatura l’età dei versi e, a varia misura e titolo, ognuna di queste ispiratrici rende immortale. Santificando anche le donne della sua famiglia: mamma e sorella, comprese fedelissime domestiche.

Consentendo ovviamente la dovuta attenuante al mistero che avvolge la creazione poetica, sembra che, a ragion veduta, Montale abbia inventato, a proprio uso letterario, un personale sistema tolemaico al centro del quale si autopose, astro principe di un ideal gineceo. E in veste di poeta, il ben accorto Eusebio (il soprannome di confidenza del sommo Eugenio) si industriò a far ruotare attorno a sé donne-pianeta catalogate per modello: l’angelo stilnovista, la femme fatale, la complice. Tutti fantasmi che hanno sorretto la fragilità esistenziale dell’uomo Montale.

La costellazione di femmine cui aspirò l’uomo, e a cui si ispirò il poeta, secondo esegeti, andrebbe dalla «remota e misteriosa» Arletta o Annetta, alla superidentificata Volpe (Maria Luisa Spaziani). Con in mezzo, luminosissime, Gerti, Clizia (Irma Brandeis), la Mosca (Drusilla Tanzi) e sudamericane leopardate in un subisso tormentante su chi sia stata veramente la più inesplicabile e imprendibile del reame. Incluso l’astro celeberrimo, Dora Markus, che, nel pentagramma fantasmatico, c’è chi la vorrebbe a ogni costo «in carne e ossa», comunque identificabile soltanto dalle gambe, come si è da sempre vista nella notissima fotografia, scattata dall’austro-triestina maghetta Gerti Frankl Tolazzi, e inviata a Montale dal supercolto e supertutto Roberto Bazlen, detto Bobi, con un’esortazione da sembrare sfida: «Perché non ci scrivi (sulle gambe) una poesia?»…

Senza dimenticare, adesso, la dispettosa Esterina che, pur facendo rima con Zerlina, con Eusebio non intonò mai «Vorrei e non vorrei”». E squittendo maliziose allusioni, dopo oltre cinquant’anni dal tempo del celeberrimo tuffo quando i «vent’anni la minacciavano », confidava a uno dei suoi ultimi amici affinché, defunta, testimoniasse per lei la «verità di Esterina» nella più cruda e impietosa realtà: «Poveretto. Non poteva combinare niente». Nonostante il sidereo coro delle gatte cenerentole intonanti un’invitante serenata per il poeta: «Son più sorelle, son tutte belle, son tutte belle per far l’amor…». La sorte loro, poverette, non fu il talamo. E se qualcuna di quelle sante donne qualche vapeur lo percepì, il soprassalto lo provò non tra le lenzuola ma, verticismo del sesso virtuale, in endecasillabi sciolti.

Nel gran gioco poetico qualcuna delle falene si bruciò le ali. L’infatuazione la accecò. «Donna baciata non teme ventura»… «O non baciata»… Le femmine lasciate a bocca asciutta possono filtrare postume vendette. Per farsene un’idea basta dare un’occhiata all’epistolario di Eusebio con Clizia, al secolo Irma Brandeis. E decrittare, sapendolo fare, certi strali epistolari d’altra mittente. Magari dopo aver religiosamente ascoltato trasecolati le rievocazioni dell’incredibile Gerti con ancora nostalgici recrimini per ciò che non era avvenuto. O aver tentato di insidiare l’inscalfibile memoria di Lucia Rodocanachi, la négresse inconnue, fedelissima e segretissima traduttrice per conto terzi (i suoi amici letterati). L’ombra di Lucia, qual fantasma poetico, non affiora nell’opera in versi. Chissà perché mai il poeta non la fece salire sull’omnibus delle muse ispiratrici. Eppure se mai incomparabile confidenza stretta si stabilì tra un uomo e una donna fu tra quei due. Ma Lucia, peccato per lei, era soltanto una complice di crimini epistolari.

Dai versi montaliani, al cospetto del gran girone donnesco che sembrerebbe avergli affollato la vita, e che oggi, «Madamina il catalogo è questo…», ha trovato in Giusi Baldissone il suo Leporello, non sembra affiorino rancorose rivalse. Semmai possono scoccare acuminate frecce, intinte nel curaro, il cui femminil bersaglio, alluso ovviante, fa parte soltanto della parade di rompicapi per virtuosi dell’accademia. D’altra parte la poesia di Montale è esclusivamente la versione di Montale, in ogni caso gran vizir e demiurgo del corteggio muliebre. Certo ogni qualche tempo ripullulano bagliori che inquietano l’orizzonte. Si pubblicano nuove trouvailles, generalmente lettere vergate con l’inconfondibile montaliana grafia sismografica, che alludono, va a vedere un po’, a qualche altra ombra di femmineo sesso. S’accanisce così la morbosa curiosità, ripetizione di un Leitmotiv ipernoto: chi sarà la nuova donna del mistero?

La caccia prende da una scheggia di memoria, rievocante una giurassica gioventù, che l’ormai vecchio e glorificato poeta adombra in un verso qual sfizio o trappola per esegeti. La malizia poetica nasconde profili di donne, calembour e supposti grovigli amorosi. Versi-trappola che fanno rizzare le orecchie ai Maigret della vita del gran poeta, angustiandoli come chi stia davanti a un cruciverba senza schema, con il drammatico interrogativo del perché a Montale sia venuto in mente un microflirt di tanti anni avanti. Magari dal tempo in cui, appoggiato a una spalletta dell’Arno, in posa come un ganzo, in pantaloni bianchi e abbastanza piegone – così Montale appare in certe fotografie degli anni Trenta – finiva per somigliare a un don Giovanni. Con Bobi Bazlen nella parte di Cyrano che dal sottoscala insinuava: «Cos’è una poesia se non una promessa d’amore fatta un poco più vicino?».

E quel che il poeta semplicemente voleva dirci sull’emozione del ricordo, che tutti assale in età avanzata, diventa occasione di uno scandaglio impietoso su chi fosse l’ispiratrice della scheggia del senile abbandono; raccontando poi, per filo e per segno, chi mai sia stata la remota, di cui vengono non soltanto ispezionati tutti gli angolini della vita, ma anche quella dei genitori, parenti e affini, compreso albero genealogico al terzo e quarto grado. Senza trarre il classico ragno dal buco visto che i versi di Montale restano tal quali nella loro maestà, con il loro nostalgico rimpianto rivolto al tempo che se ne è andato.

Fortunatamente, e c’è da esserne certi, sono ancora molti i lettori della poesia di Montale. La amano per ciò che è, vivendola per l’estraniante abbandono di fronte al mistero della vita. Senza impellenti bisogni di spericolati apparati di note a pie’ di pagina, ossessivi voyeurismi, elenchi di donne & affini. La poesia di Montale salvata dai lettori.

Non certo da celebranti da sinedrio i quali, illudendosi di svelare il senso della poesia di Montale, la hanno trasformata in inerte corpo da tavolo necroscopico.

Giuseppe Marcenaro (“Il Venerdì”, 5 giugno 2014)

Clizia - Irma

 

"Dovevi uccidere in me il poeta, UCCIDILO e salva l'anima dell'uomo che ti sta pregando. L'anima è la parte migliore di me e la mia poesia è ancora in vita e non ha bisogno di addizioni! Se sono un poeta di terzo livello nessuno può fare di me un genio. Io devo respirare e scoprire in te il respiro di Dio, l'opera della Divinità".
...
Le parole riportate mettono a nudo in termini ultimativi l'inconciliabilità di vita e poesia. Affiatarsi davvero con l'esistenza, realizzandone il fondamento e la sostanza che è l'amore, significa rinunciare alla poesia.Ciò che Montale chiede ad Irma, nell'ora della decisione finale, è di essere esattamente l'opposto di un'ispiratrice: soltanto lei, "in flesh and bones", può compiere il miracolo di eliminare il poeta e porre rimedio a tutte le inadeguatezze a vivere di chi continua a proclamarsi una larva d'uomo, esposto ai venti dell'autodistruzione... 
Ma è l'impossibile ciò che si chiede alla donna. non c'è salvezza per l'anima di un uomo che non ha mai imparato a vivere e ha fatto della poesia il sostituto integrale di un'impossibilità.

 

da "Montale - L'arte è la forma di vita di chi propriamente non vive", Elio Gioanola, Jaca Book 2011, pag 299

 

 


 Giuseppe Marcenaro, La Stampa 3 settembre 

  “Muore a getto continuo”, diceva di lui Bobi Bazlen. Non avrebbe comunque immaginato come sarebbe stato il proprio funerale: nel duomo di Milano, presente il presidente della Repubblica, autorità dello Stato e dell’intellettualità. Apoteosi analoga a quella riservata ad Alessandro Manzoni. Da scontroso appartato, aveva amato l’ombra delle formiche, gli sgomenti e gli interstizi del cuore. La sorte gli riservò grandinate di onori: Cavaliere di Gran Croce, senatore a vita, lauree honoris causa, il premio Nobel. (...)   

 

Cosa mai aveva combinato per meritare tanto? Scritto versi e nascosto il proprio privato. Per “decenza di vivere”. Infrattò però se stesso nell’opera sua, metaforizzando poesia e prosa in una inesausta autobiografia che sguinzagliò famelici “critici da me depistati” per svelare il dritto e il rovescio dei “segreti” del signor Eugenio Montale. (...)

 

Si infilò nelle misteriose fessure dell’esistente per carpire un recondito segreto, che lui stesso sapeva non esservi: lo sbaglio di natura, origine dello sgomento che ci fa figli di un refuso. Più che svelare una scheggia del mistero in cui tutti siamo calati, altri enigmi aggiunse. I versi suoi lasciano atterriti. Corteggiò l’invisibile. “Montale è quello che è arrivato più vicino all’ineffabile” disse Carlo Bo. Per questo, del suo labirinto di riflessi e controfigure si vuol sapere tutto. Si pretende conoscere le immagini poetiche in primo piano e sullo sfondo. Cosa rappresentino nell’universale garbuglio. Quale vero volto si celi dietro alle centomila maschere con cui Montale si nasconde. Quale l’identità di nomi celebrati: Arletta, Clizia, Dora Markus... Chi fossero Esterina e Gerti... Così vere nella memoria e così trasfigurate tra i versi da essere confuse con fantasmi.   

 

E lui, sarcastico e distaccato, perduto in siderali silenzi. Forse il vero segreto di Montale era che non voleva, trattandolo lui con strana dimestichezza, far mostra del suo tragico dolore esistenziale. “Spesso il male di vivere ho incontrato”. E a tutto il suo cartellone poetico di primedonne, caratteri e comparse, coniugato a complici freaks, affidava una estenuata lamentazione: le accasciate lettere inviate a Bazlen, la saga dell’incertezza nelle missive a Irma Brandeis, l’amaro gioco salottiero con Lucia Rodocanachi, la dolente confidente, “socia” in maldicenze e “vittima” di un altalenare di amorosi sentimenti, continuamente delusi. L’amore passione, sempre sensuale e mai erotico, cifra immutabile dei rapporti di Eusebio con le donne. Il pervicace “Vorrei e non vorrei”, coniugato da lui per tutta la vita al genovesissimo e arabizzante maniman che significa “Non si sa mai”. Ma è più forte: esortazione furba, vigilanza tattica, malizia, non impegnarsi mai... (...)   

 

Ricordando ai suoi corrispondenti la distruzione delle proprie lettere, si augurava fossero conservate. Svelandosi il segreto della corrispondenza si sarebbe continuato a parlare di lui e della sua poesia; e della propria catastrofica autocommiserazione - il morente Eusebio, il povero Eugenio, l’inesistente, il desolato, l’Old Eusebius, l’Old Grey... reiterato contrappunto con cui emulsionava infelicità, pervicace limitatezza, perpetuo bisogno di consolazione. Inciampava continuamente nel quotidiano. Però non sbagliò mai un colpo nell’attivissima e sorprendente capacità di organizzare il proprio successo letterario».

  Giuseppe Marcenaro

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Eugenio Montale e quella rincorsa verso Dio

Il "poeta del dubbio" era un fervido credente. Prima di morire recitò il pater noster in latino

 

Alla ricerca di Dio, interrogandosi continuamente su cosa sia la fede. Eugenio Montale, il "poeta del dubbio", era un fervido credente, e sua nipote Bianca Montale racconta i retroscena del suo rapporto con la religione in un'intervista ad Avvenire (11 novembre).

LA RICERCA DELLA FEDE
Secondo Bianca, allo zio Eugenio «è mancata la "folgorazione" della fede, senza la quale è difficile razionalmente comprendere tante cose della Chiesa». Per questo, a suo avviso, lo zio era «un cristiano senza dogmi». Nel 1917 nel suo diario, Montale scrive: "Da tre giorni il dubbio mi par pazzesco, la ragione uno strumento diabolico! Davvero che la Fede è grazia e non si può averla senza una completa sfiducia nelle capriole della logica. Il dubbio è antifilosofico". Ma è soprattutto negli ultimi anni di vita che questa sua ricerca diventa più pressante. Scrive meno, quasi nulla per via della malattia. Ma parla. Voleva sapere, conoscere. 

IL BENE E IL MALE
«Trascorrevamo giornate intere a discutere, ad esempio, del Bene e del Male, delle eresie del II secolo dopo Cristo. Non erano discussioni astratte - evidenzia Bianca - ma come se volesse avvicinarsi e comprendere questo Altro. Come disse il mio caro amico Carlo Bo, "quel Dio che Montale, come tutti i veri credenti, non nomina mai invano".

In mio zio c’era l’idea di un essere superiore, soprattutto aveva una passione per la figura di Cristo. Prima di andare in ospedale, dove sarebbe morto, sul suo comodino di casa aveva una vita di Cristo».

IL PATER NOSTER
Bianca rivela che Eugenio teneva sempre nel portafoglio un santino, un’Adorazione dei Magi e sotto la scritta "La bontà di Dio si è manifestata in Cristo"». Ad un compleanno gli regalò un Vangelo che era la riproduzione anastatica di una versione del Quattrocento. Poco prima di morire chiese al cappellano della clinica San Pio X, dove era ricoverato, di recitare insieme un Padre nostro, «anzi il Pater noster perché preferiva il latinoA mio avviso significa che aveva riconosciuto un Padre. Mi sembrano segni di questa ricerca mai sopita e allo stesso tempo mai conclamata, come era del suo carattere: timido e schivo». 

I PRETI BUONI E CATTIVI
Durante la Prima Guerra mondiale un suo caro amico e commilitone, Ettore Crovella, che poi diventò monsignore, gli regalò un libro con questa dedica: "Caro Eugenio, tu sei molto più vicino a Dio di quanto pensi". «Aveva una sete di conoscenza continua dei temi religiosi - conclude Bianca - aveva studiato le grandi eresie: pelagiani, nestoriani. Mentre mal sopportava – e su questo eravamo molto in sintonia – i preti impegnati. Con il suo modo ironico prendeva in giro i sacerdoti in borghese o peggio i preti operai. Ma aveva sempre grande rispetto dei sacerdoti veri».

sources: ALETEIA

POESIA TRAVESTITA
"Nei primi mesi del 1978 il poeta mi espose un originale programma, suggerendomi con allegria di realizzarglielo: trovare qualcuno che traducesse in arabo la lirica Nuove stanze delle Occasioni. A questo punto la sua paternità doveva essere taciuta e il testo, attribuito a un ignoto poeta arabo, andava tradotto in francese, poi a catena in polacco, russo, ceco, bulgaro, olandese, tedesco, spagnolo, per tornare all'italiano. A suo parere la poesia alla fine del trattamento sarebbe stata del tutto irriconoscibile; me lo disse con un gradevole, consueto risolino ironico..." 
(Dalla premessa di Maria Corti).

 

 

NUOVE STANZE
Poi che gli ultimi fili di tabacco
al tuo gesto si spengono nel piatto
di cristallo, al soffitto lenta sale
la spirale del fumo
che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
guardano stupefatti; e nuovi anelli
la seguono, più mobili di quelli
delle tue dita.

La morgana che in cielo liberava
torri e ponti è sparita
al primo soffio; s'apre la finestra
non vista e il fumo s'agita. Là in fondo
altro stormo si muove: una tregenda
d'uomini che non sa questo tuo incenso,
nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.

Il mio dubbio d’un tempo era se forse
tu stessa ignori il giuoco che si svolge
sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
follia di morte non si placa a poco
prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo,
ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
cortine che per te fomenta il dio
del caso, quando assiste.

Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
tocco la Martinella ed impaura
le sagome d'avorio in una luce
spettrale di nevaio. Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che accieca le pedine opporre i tuoi
occhi d'acciaio.

 

 

ULTIMA VERSIONE dopo la traduzione in : arabo, francese, poi a catena in polacco, russo, ceco, bulgaro, olandese, tedesco, spagnolo, per tornare all'italiano

 

Sul fondo della coppa di cristallo
restano ancora le ultime fibre del tuo tabacco.
Una lenta spirale s’alza,
sopra pedine e cavalli perplessi
e la seguono anelli
più agitati
di quelli che adornano le tue dita.

Con il primo sospiro svanisce 
l’illusione che in cielo
disegnava ponti e torri.
Una finestra s’apre, tremola il fumo.
Sull’orizzonte una moltitudine
Che ignora l’odore del tuo incenso.
Sulla scacchiera sei tu il solo
Che sa mettere fuoco nella sfida.

Pocanzi dubitavo ancora
Della tua capacità di dominare il quadrato.
Da allora una cupa oscurità si leva davanti alla tua porta.
Neppur d’un passo cede la pazzia dinnanzi alla morte, per un prezzo modico
che le importa il luccichio elementare dello sguardo? 
sceglie nuove vittime
da dietro il pesante sipario teso alle tue spalle
del dio dell’azzardo, se mai esiste.

Oggi conosco le tue intenzioni,
la campana d’incendio batte dolcemente i suoi cupi rintocchi,
fremono le figure d’avorio
nello sperpero di luce sul mio volto, sulla mia punta rilucente.
E tuttavia, lascia l’onore alla solitaria vigilia
Di chi oppone resistenza
Allo specchio incandescente dei tuoi occhi d’acciaio,
che abbaglia i testimoni sul quadrato.

 Già in una intervista ad Enrico Emanuelli nel '67 Montale aveva espresso questo desiderio: "Chi sa che cosa tornerebbe a casa dopo questa galoppata di traduzioni. Un'altra cosa ?...Forse migliore di quand'era partita. Tutto può capitare, non si sa mai."

 

 "La poesia si apre con un interno, il poeta e Clizia stanno giocando a scacchi. L’attenzione è tutta concentrata sul gesto di spegnere la sigaretta e sugli anelli che la donna porta alle dita. Questi sono portatori di una densa simbologia magica: una costruzione di fumo, che sembra scaturire da questi incantati gioielli, si addensa nella stanza: si tratta della cittadella della Cultura, di cui la donna è la rappresentante. Ma la realtà incombe violenta, la finestra si spalanca e il miraggio è spazzato via, le vane difese vengono sopraffatte.
La guerra, o meglio, i preparativi ad essa, rappresentano la realtà esterna, una tregenda d’uomini che non sa di Clizia, non sa del suo incenso, della Cultura che ella incarna, si sta preparando a combattere sul campo. La scacchiera è quella della Storia, dove si muovono come pedine questi uomini ignari.
La donna, di fronte alla barbarie e alla violenza degli eserciti, può poco, infatti il lampo del suo sguardo risulta inattivo se ignorato e incapace di far perno sulle coscienze degli uomini. Servono altre forze, forse non migliori ma sicuramente più adatte, per fermare questa tragedia. Clizia non basta, la cultura non basta. La donna, col suo corrispettivo metaforico, resta isolata ed in costante pericolo, sotto la minaccia della distruzione fascista.
Infine c’è una risposta positiva ai dubbi passati sul ruolo della cultura. Batte il suo fioco / tocco la Martinella e le pedine atterrite, vengono come immobilizzate sotto una luce / spettrale di nevaio. E’ quella stessa ignoranza a portarli alla sconfitta, alla morte. Mentre chi, con Clizia, ha opposto gli occhi d’acciaio della cultura allo specchio ustorio della brutalità e dell’insensatezza della guerra, è riuscito a sopravvivere e a resistere non solo fisicamente ma soprattutto intellettualmente.
Oltre al già citato ruolo che barbarie e cultura hanno in uno scenario di guerra, appare opportuno far luce sul corrispettivo privato e personale
della vicenda. Clizia è il senhal di Irma Brandeis, una dantista americana di origine ebraiche, la quale aveva intrattenuto rapporti culturali e privati con Montale, in seguito ad una collaborazione lavorativa presso il Gabinetto Vieusseux del quale il poeta era il direttore.
Con la promulgazione delle leggi antisemite e i preparativi per la guerra a fianco della Germania nazista, Irma era stata costretta a lasciare Firenze e l’Italia. Non è casuale, dunque, la presenza di Clizia come corrispettivo della Cultura messa in grave pericolo dalla minaccia del conflitto."
(Fiammetta Gori)
"Della donna salvatrice – unica in grado di opporre il suo sguardo fermo e preveggente alla follia della guerra imminente (potrebbe intitolarsi “Amore, scacchi e vigilia di guerra” disse Montale a proposito di questa sua poesia), i suoi occhi d’acciaio allo specchio ustorio che accieca la maggioranza degli uomini – non resta neppure una labile traccia."
(Maria Antonietta Terzoli)

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