Un morto “per lavoro”, di un lavoro che l’ha “spremuto e gettato”, un lavoro servito solo per poter pagare rate, e debiti, e cambiali, sempre in un affanno di conti in sospeso, un lavoro che ha rappresentato il punto focale della vita e che non gli ha restituito, in cambio, alcuna dignità né considerazione.
Il lavoro come codifica dell’uomo e del suo valore economico nel mondo, tipico assioma del pensiero americano.
Abbiamo così “festeggiato” il 1° maggio a Milano, assistendo alla rappresentazione di “Morte di un commesso viaggiatore”, il dramma di Arthur Miller.
L’inseguimento di un presunto facile successo in un lavoro interpretato come fondato sull’imbonimento e la simpatia, impegno che ha assorbito tutte le sue migliori forze ed energie, ora che viene meno ogni illusione e il licenziamento in tronco sigla la sua improduttività, lascia il “commesso viaggiatore” Willy svuotato e consapevole del suo totale fallimento.
Fallimento come uomo, padre, marito, lavoratore.
Gli appare così tutta l’inconsistenza della propria vita costruita intorno all’infantile inseguimento di un’omologazione in una società basata sulla ricerca spasmodica del successo facile ( “il prodigio di questo Paese è che un ragazzo possa finire coperto di diamanti anche solo grazie alla sua popolarità, al suo sorriso!”), sul possesso di beni, come l’ultimo elettrodomestico (il frigorifero, rotto già prima che si sia concluso il pagamento di tutte le rate), sulla pervicace convinzione che se si è forti, prestanti e simpatici nessuna meta sarà preclusa; con il dissolversi progressivo delle illusioni avviene la presa di coscienza della fragilità delle proprie convinzioni e dei falsi “valori” sui quali si era modellata tutta l’esistenza sua e della sua famiglia e si fa strada nel protagonista la consapevolezza della propria mediocrità.
“Dentro la sua testa” (questo il titolo originario dell’opera) passato e presente si intrecciano a ricordare e sottolineare i passaggi di tutti i fallimenti, delle occasioni mancate, imprese meschine compiute, errori non più rimediabili.
Ed è nell’epilogo, nell’inseguire ancora una volta il sogno di una ricchezza, non più per sé, adesso, ma per la famiglia e, in particolare, per quel figlio che gli ricorda la sua cattiva coscienza, che si compie, forse, l’ultimo inutile, inconcludente atto della vita di Willy. Con il suicidio infatti, probabilmente, non riuscirà ad ingannare l’assicurazione mentre priverà la famiglia dell’unica vera ricchezza che possedeva: l’amore che moglie e figli coltivavano, nonostante tutto, nei suoi confronti.
Teatro Franco Parenti, pubblico numeroso e partecipe a seguire un testo importante e amato, interpretato da un ben amalgamato gruppo di attori che aderiscono ai personaggi e interagiscono perfettamente tra loro.
Applauditi tutti calorosamente e a lungo.
Ricordando la coppia protagonista:
Michele Placido è un Willy sfaccettato nel suo accendersi di entusiasmi infantili, rabbie non trattenute, cadute di umore e stanchezze rese palesi dall’evidente decadimento psicofisico. Tratteggia mirabilmente un uomo deluso, da se stesso prima ancora che dagli altri, che ripercorre, in un continuum tra il presente e il passato, momenti salienti della propria vita quando questa, chissà ?, avrebbe potuto prendere altre direzioni ma si è continuamente arenata impantanandosi nei solchi profondi e melmosi che tracciano la via per il successo, la ricchezza, la fama.
Miraggi per un uomo come lui per il quale, in fondo, l’onestà e la semplicità sono state l’impedimento a perseguire mete che invece (nella sua mente) è riuscito a raggiungere l’ossessionante, idolatrato fantasma del fratello Ben.
Accanto a lui Alvia Reale in una grande interpretazione di Linda, moglie e compagna fedele, solidale, consumata dallo stesso fallace sogno del marito, complice involontaria del disfacimento di ogni valore concreto nell’interno della famiglia, ammaliata anch’essa dagli idoli di una società consumista e forzatamente ottimista, autoproclamatasi vestale di un tempio familiare la cui fiamma vacillante è destinata inesorabilmente a spegnersi.
Simboli sacrificali insieme ai figli del credo nel “Sogno americano”.
Stefania Minnucci