Avevo preparato i fazzoletti, finalmente sdoganati (prima mi asciugavo le lacrime nel buio della sala con fare colpevole col dorso della mano, tirando su con il naso) da quando avevo letto un articolo nel quale si osannava l’intelligenza emozionale, la capacità di provare empatia, come carattere distintivo non di debolezza bensì di una potente forza interiore capace di metterci in contatto e consonanza con l’altro, sia esso presente o rappresentato su uno schermo.
Insomma, rassicurata sulla legittimità delle mie eventuali, quasi certe, reazioni di commozione mi avvio con grandi attese a vedere “La stanza accanto” di Almodovar: un regista che amo, un tema che sento fortemente da sempre, rafforzato dall’incalzare degli anni e da esperienze che, da professionali, sono inevitabilmente divenute anche personali, riguardanti la sfera familiare, e poi... due attrici che ritengo non possano deludermi.
E invece.
Un film che ha come base un tema così importante, anzi due.
Che dico – tre:
la caducità ineluttabile, il diritto alla dignità nel morire, la solidarietà nell’amicizia.
Quelli che dovrebbero essere i pilastri esclusivi di una dolente, limpida, ragionata ma inevitabilmente commossa narrazione che ci induca a riflettere, ad interrogare la nostra coscienza, a partorire alla luce le nostre reazioni, le nostre eventuali scelte, perdono il focus esclusivo per diluirsi in altre mille tematiche e flashbacks: la guerra, anzi le guerre (è vero che una delle protagoniste era stata reporter di guerra, ma la puntualizzazione nel definire la sua figura le toglie universalità), speculazioni intellettuali sul sesso e sull’omosessualità, sull’ambiguità interpretativa delle molestie sessuali (di sfuggita, solo due parole in una scena assolutamente inutile), l'incomunicabilità generazionale, il dark web, l'intolleranza, il cambiamento climatico, il covid (!)– sì, di sfuggita, ma viene nominato anche lui.
Insomma, invece di avvolgerti nel climax la sceneggiatura te ne distrae continuamente.
Si può anche pensare che sia voluto questo raffreddarti costante, distoglierti, portarti altrove, ma è un altrove così superficiale che solo infastidisce.
Quanto lontano da “Dolor y gloria” dalla sua carnalità, dalla sensazione palpabile del dolore, del disagio, della sofferenza fisica e psichica.
Qui un film freddo, il solo calore lo trasmette la Moore. La commozione che la pervade, la rabbia, il dubbio, l’atto amore che risponde a una chiamata feroce, tutto così leggibile sul suo volto bellissimo e dolente.
L’emozione arriva con lei, solo con lei.
Per il resto un film patinato, “radical chic”.
Una decalcomania sbiadita da un film alla Woody Allen, priva però del cinismo e dell'ironia yiddish che caratterizzano quell'autore. Quanto di più alieno da Almodovar...
Un John Turturro come sempre inespressivo, lo si dimentica mentre lo si guarda.
Una Tilda Swinton più glaciale che mai, monolitica, di una durezza militare che, pur se frequentata dal personaggio, non giustifica la sua persistenza e non è credibile nella sua attuale condizione di creatura che dovrebbe essere scossa dai più grandi fremiti e percorsa dalle più importanti e definitive domande.
E la scena della preparazione al suicidio…
Quanta più grande poesia in quella che mi è tornata alla mente: la Occhini di Özpetek. I cinefili inorridiranno? Inorridiscano pure.
Mi domando chi abbia “preso la mano” a chi. Se sia stata la Moore ha tutta la mia stima e la mia gratitudine, se sia stato il sistema cinematografico hollywoodiano ne sono dispiaciuta per il regista.
Ma tant’è.
Un Pedro americano, un ossimoro particolarmente stridente.
sm