Come il poeta solo il fotografo è colui che accoglie e custodisce la presenza, dialogando con il tempo e lo spazio, presentificando anche il nulla, allontanando l'orrore attraverso lo sguardo meravigliato del primo giorno, strappando al non senso un frammento di senso.

 

Michele Lauro - Panorama - Yves Bonnefoy, 'Poesia e fotografia'

 

La poesia e gli imbecilli

La poesia è una porta... ermeticamente chiusa per gli imbecilli, spalancata agli innocenti. Non c’è niente di tanto opposto all’imbecillità quanto l’innocenza. 

La caratteristica più spiccata dell’imbecille è la sua aspirazione sistematica a un certo ordine del potere. L’innocente, invece, si rifiuta di esercitare il potere perché li possiede tutti.
L’innocente, consciamente o meno, si muove in un mondo di valori; l’imbecille in un mondo nel quale l’unico valore è rappresentato dal potere.
Gli imbecilli cercano il potere in una qualsiasi forma di autorità: in primo luogo il danaro, e tutta la struttura dello stato, dal potere dei governanti fino al microscopico, ma corrosivo e sinistro potere dei burocrati; dal potere della chiesa a quello della stampa; dal potere dei banchieri a quello della legge. Tutto questo compendio di potere è organizzato contro la poesia.
Siccome poesia significa libertà, affermazione dell’autentico, ha - indubbiamente - un certo ascendente nei confronti degli imbecilli.
In quel mondo falsificato e artificiale che si costruiscono intorno, gli imbecilli hanno bisogno di una serie di articoli di lusso: macchine, tendaggi, gingilli, gioielli, passatempi… e perfino di qualcosa che vagamente somigli alla poesia. 
Nel surrogato di poesia da loro adoperato, parola e immagine diventano puri elementi decorativi e, così facendo, riescono spesso a distruggere il loro potere di incandescenza. 
Ecco come si crea la cosiddetta “poesia ufficiale”. Poesia fatta di paillettes, che suona a vuoto.
La porta della poesia non ha chiave né lucchetto: è difesa dalla sua propria capacità di incandescenza. Soltanto gli innocenti, che hanno preso l’abitudine del fuoco, che hanno le dita in fiamme, possono aprire quella porta e, attraversandola, penetrare nella realtà.
La poesia si assume il compito di far sì che questo mondo sia abitabile non soltanto per gli imbecilli.

Aldo Pellegrini

"Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa e morta; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti.

Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire, e n'è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. "

 

Alessandro Manzoni - I Promessi Sposi

 

 

Scarsa lingua di terra che orla il mare,
chiude la schiena arida dei monti;
scavata da improvvisi fiumi; morsa
dal sale come anello d'ancoraggio;
percossa dalla fersa; combattuta
dai venti che ti recano dal largo
l'alghe e le procellarie
- ara di pietra sei, tra cielo e mare
levata, dove brucia la canicola
aromi di selvagge erbe.
Liguria,
l'immagine di te sempre nel cuore,
mia terra, porterò, come chi parte
il rozzo scapolare che gli appese
lagrimando la madre.
Ovunque fui
nelle contrade grasse dove l'erba
simula il mare; nelle dolci terre
dove si sfa di tenerezza il cielo
su gli attoniti occhi dei canali
e van femmine molli bilanciando
secchi d'oro sull'omero - dovunque,
mi trapassò di gioia il tuo pensato
aspetto.

Quanto ti camminai ragazzo! Ad ogni
svolto che mi scopriva nuova terra,
in me balzava il cuore di Caboto
il dì che dal malcerto legno scorse
sul mare pieno di meraviglioso
nascere il Capo.

Bocconi mi buttai sui tuoi fonti,
con l'anima e i ginocchi proni, a bere.
Comunicai di te con la farina
della spiga che ti inazzurra i colli,
dimenata e stampata sulla madia,
condita dall'olivo lento, fatta
sapida dal basilico che cresce
nella tegghia e profuma le tue case.
Nei porti delle tue città cercai,
nei fungai delle tue case, l'amore,
nelle fessure dei tuoi vichi.
Bevvi
alla frasca ove sosta il carrettiere,
nella cantina mucida, dal gotto
massiccio, nel cristallo
tolto dalla credenza, il tuo vin aspro
- per mangiare di te, bere di te,
mescolare alla tua vita la mia
caduca.
Marchio d'amore nella carne, varia
come il tuo cielo ebbi da te l'anima,
Liguria, che hai d'inverno
cieli teneri come a primavera.
Brilla tra i fili della pioggia il sole,
bella che ridi
e d'improvviso in lagrime ti sciogli.
Da pause di tepido ingannate,
s'aprono violette frettolose
sulle prode che non profumeranno.

Le petraie ventose dei tuoi monti,
l'ossame dei tuoi greti;
il tuo mare se vi trascina il sole
lo strascico che abbaglia o vi saltella
una manciata fredda di zecchini
le notti che si chiamano le barche;
i tuoi docili clivi, tocchi d'ombra
dall'oliveto pallido, canizie
benedicente a questa atroce terra:
- aspri o soavi, effimeri od eterni,
sei tu, terra, e il tuo mare, i soli volti
che s'affacciano al mio cuore deserto.

Io pagano al tuo nume sacrerei,
Liguria, se campassi della rete,
rosse triglie nell'alga boccheggianti;
o la spalliera di limoni al sole,
avessi l'orto; il testo di garofani,
non altro avessi:
i beni che tu doni ti offrirei.
L'ultimo remo, vecchio marinaio
t'appenderei.

Ché non giovano, a dir di te, parole:
il grido del gabbiano nella schiuma
la collera del mare sugli scogli
è il solo canto che s'accorda a te.

Fossi al tuo sole zolla che germoglia
il filuzzo dell'erba. Fossi pino
abbrancato al tuo tufo, cui nel crine
passa la mano ruvida aquilone.
Grappolo mi cocessi sui tuoi sassi.

 

Camillo Sbarbaro

 Da "Rimanenze" "All'insegna del pesce d'oro", ed. Scheiwiller, Milano, 1955

Ti scrivo 
da questo freddo
che non vuole più finire,
da questo chiasso girevole 
che fa di ogni vita un povero deserto.
L'altura sarà più verde 
fra un mese, 
se non gela 
arriveranno macchie di rosso 
in mezzo ai rovi,
il bianco dei tuoi occhi 
sugli alberi delle ciliegie.
C'è amore se c'è attesa
di amare: 
io porto l'infanzia,
tu porti il cielo 
e il
 mare.

 

Franco Arminio

 "Il dolore"

 

a mia madre
in memoria

 

Il dolore si muove. A giorno pieno
se ne va il ritratto, il sembiante che
era. Sembra un segno di ritorno, ma
non è questo. Ritaglia piuttosto una
posa antica di sé, in ogni fotogramma.
Tiene svegli i sensi, a volte è ascolto,
sottilissima piega, o una curva. Là,
alla radice la parola lei, cara come
non mai: i saluti, quei saluti nel corridoio,
tutto annotato fino all’ultimo, pagina
dopo pagina, sentimento dopo sentimento.
È la via maestra che sostiene, che dice
dopo la forma c’è il luogo in cui lei
sosta. Ma non all’ultimo. Ancora
più in là torna per la sua festa,
quando ricorre il giorno. Si muove
il dolore, tradisce se stesso da un
secondo all’altro. Ora è nell’occhio,
poi è sulla bocca o appare
in un suono appena percepito
di passi, e le mani accompagnano
il ritmo dei suoi anni migliori.
Quello che resta, ed è cuore,
il bellissimo cuore impresso
in vita, fino a tutta la vita.
Non lo consumerà, non per tutto
il tempo che servirà, e ancora.
E non nel vetro, nello specchio,
ma pura sostanza, amore che ci serve.
E sempre al di là dell’illusione,
perché non c’è illusione, ma verità,
sentire, toccare, percepire,
dirlo coi sensi tesi, per camminare,
era nel fianco doloroso, nella testa
di sera e il suo perdono, la sua
testimonianza di umanità.
Il dolore si sposta, è sponda
anche dell’altro quando parla
e trascina un pensiero fisso,
che è solo amore, non altro
quando nell’aria la sentiamo

arrivare.

 

Alberto Toni
da "Il dolore", Samuele Editore, 2016

 

 

 

 

Rotonda terra; scena che si ripete,
in te, del saluto serale: consuetudine
mia planetaria, con te e i tuoi tramonti:
trasalimento, di tegola in tegola,
del mio vivere che se ne va col tuo
trapassare, lume diurno, lento,
sul tetto davanti casa; e mio formarsi,
intanto, un petto come di colomba;
e metter piume amorose per la notte
che viene; ravvolgermi unitario
con essa: pigolìo interiore; perdita
dell’umano: divenir mio universale.

 

Carlo Betocchi
da Poesie del sabato, Mondadori, 1980

Così siamo

 

Dicevano, a Padova, “anch’io”
gli amici “l’ho conosciuto”.
E c’era il romorio d’un’acqua sporca
prossima, e d’una sporca fabbrica:
stupende nel silenzio.
Perché era notte. “Anch’io
l’ho conosciuto”.
Vitalmente ho pensato
a te che ora
non sei né soggetto né oggetto
né lingua usuale né gergo
né quiete né movimento
neppure il né che negava
e che per quanto s’affondino
gli occhi miei dentro la sua cruna
mai ti nega abbastanza
E così sia: ma io
credo con altrettanta
forza in tutto il mio nulla,
perciò non ti ho perduto
o, più ti perdo e più ti perdi,
più mi sei simile, più m’avvicini.

 

Andrea Zanzotto
da IX Ecloghe, Mondadori,1962

 

Era il paese della luce d’oro

Era il paese della luce d’oro.
La sera ogni persona, quasi in sogno
abbandonarsi pareva. E mi pareva
– la luce d’oro era finita – in sogno
di te cadere, mio confuso amore.

Sandro Penna
(da Confuso sogno, Garzanti 1980)

 

 

 

Se qualcuno stasera è infelice come me,
qualcuno come me, sprangato in una stanza,
dopo aver visto due volte lo stesso film,
solo con un baule di parole sbagliate,
di ricordi bugiardi, in un paese di neve,
fra due lenzuola bianchissime, solo;
se qualcuno stasera è come me nel mondo
uno straniero che domani se n’andrà…

 

Amico che di là dei monti
per ascoltarmi stringi gli occhi come una volta,
ricordi i balli prima della guerra,
e Jole e Minia e la signora forestiera,
ricordi il sole del trentanove
sui nostri visi brutti, le nostre risa di poveri,
l’intercalare «Quien sabe?» di moda tutta un’estate,
finché significò qualcosa…

 

Poi la luna si chiuse nei pozzi,
l’unghia d’inverno recise
i mazzi di robinie spruzzolati di sangue,
migrarono gli uccelli dai nidi delle caserme…
Chi guarirà dentro di noi tutti quei morti
che palpano con mani cieche
la notte smisurata che li mura?
Chi nel nero tizzone risveglierà una guancia
per ripetere «t’amo» al ponte della Bettola?

 

Giorni più neri altrove m’aspettavano:
mi punse il petto la febbre
con lunghe aguzze scapole di vergine,
scaltro venne un sensale
a contare i miei passi, il mio respiro…
Insolente proposta di esistere,
inutilmente al balcone
il grido del gallo un’alba mi chiamò.

 

Da allora chiuso nel mio cunicolo, e pieno
d’un minuto rancore, d’un bambino rancore,
come un guardiano di faro infedele
vivo in attesa d’un naufragio, m’affeziono
ai minimi relitti che la tempesta mi porge,
dirigo sugli scogli ogni barca che mi cerca,
rido da solo strofinandomi le mani…

 

Dio, tu dici, o chiedi in silenzio:

 

a guisa dei poliziotti dei romanzi,
ho fiutato nel mondo le Sue peste;
in piedi e in ginocchio, beffato e beffardo,
l’ho ferito e chiamato, l’ho perduto e cercato,
ma il delitto dentro la stanza chiusa
s’è ripetuto ogni volta, all’improvviso…

 

E poi… ma addio, addio, le parole non servono.

 

Gesualdo Bufalino
da “L’amaro miele”, Einaudi, Torino, 1982

"Bologna, 2 agosto 1980, ore 10,25..."


Non ho capito cosa è successo. Ma sta' allegra.
La mia bambola, Nerina, mi ha detto in un orecchio:
«Ora vedrai, andremo al Paese dei Balocchi
e faremo un girotondo con tante altre bambine».
Pensavo a Emilio, in quel momento.
Non ci voleva proprio questo sisma.
Emilio mi aspettava alla stazione
e lo so, come sempre, coi fiori.
Se ritadavo li buttava a terra.
Parlava di sposarmi. Che ridere...
L'avevo conosciuto per caso davanti al giornalaio.
Chissà, poi, cosa sarà stato: un tuono d'estate.
Stavo pensando al campo di mio padre,
nell'Alta Irpinia, ai limiti del Cielo.
«Vieni, mi aveva scritto, il grano è stato tagliato
e i girasole si sono voltati a oriente.»
Avevo una ferita sanguinante.
Voleva lasciarmi perché era sposato.
Io avevo pietà per i suoi figli.
Ma l'amavo e tessevo il dolore a punto assisi
seduta sulla sedia de la Gare de Boulogne.
Ma a tela finita egli verrà.
Avevo detto sempre agli amici
che la vita era uno schifo.
Ma in quell'attimo, in un lampo
ho visto tutte le sue meraviglie.
Per Peppino avevo comprato Goldrake,
per Lucia una bambola che faceva pipì,
per mia figlia Anna Maria,
la madre dei miei vispi nipoti, un frullatore.
Poi... ci sarà stato un falso contatto.
Qualcosa non avrà funzionato.
E sono stato sbalzato dalla poltroncina.
Ma io ho cercato soltanto di salvare
Goldrake e la bambola di nome Imam.
Vi prego, spediteli ai ragazzi.
E non sbagliate indirizzo.
Codice postale 80123.
[...]

 

Domenico Rea

"Gli spazzini fanno mucchi umidi,
gialli e marroni e rossastri - vinacce, e un verde macerato fresco, e se io mi coricassi su quei mucchi ad abbracciare l'alba,
a sentire tutta quella bellezza morta, come uno straccio, gli spazzini
potrebbero
farmi interrogare. E allora come potrei dire
questo mio amore inconsulto
per le panchine, che hanno sopportato tanta pioggia
e tante foglie, e tanti sederi di amanti e di vecchi
e di sentimentali come me - Questi viali. Ma non sentite
che questo viale è un urlo? E' lungo. Non vedete non udite che è troppo lungo per una capacità di sopportazione
umana
- molti si arricchiscono
dentro le loro botteghe con le mani unte e le guance rosse."


Pierluigi Bacchini
da Visi e foglie

 

 

... è nello sguardo chiaro
che potresti avere, è nel tuo guardarmi
furtivo, mentre sono distratto,
che mi capia di pensarti,
figlio
che non ho voluto per deliberato amarti

- potrebbero, se tu fossi esistito
essere le nostre vite
strette l'un l'altra
come piccole scimmie freddolose
al vento di questa sera
... ti avrei al mio fianco a camminare
in false distanze, scorci
di pensiero anch'esso di prospettico inganno
... o forse
mi potresti persino detestare

- avresti potuto
essere il mio orgoglio - dicono -
ma il mio orgoglio è l'averti risparmiato
l'ora della penombra
che affila la lama:
tu solo puoi dire
se fu errore e in che misura
non averti dato in pasto alla specie
... tu solo capire
che con la forza del vuoto ti ho piena,
mia statuina sacra,
mio geranio a cui do acqua
alla primora del giorno,
e giorno non c'è che mi dimentichi

... ci troveremo là dove si sta nel prima
e al prima si torna,
rispondimi: perché avrei dovuto
infliggerti devianze di una via
per un calvario breve?
- mi vedrai un giorno apparire,
mi lascerai, io spero,
il posto a sedere
accanto a te: ricordati, se puoi,
di toccarmi almeno le mani
nelle mie mani le piaghe
del non averti
mai accarezzato la fronte da vivo

... delle primavere, delle donne che avresti
potuto avere
è fatta questa vastità della mia solitudine;
mi vanto solo di questo:
non ho buttato nel pattume nessuno.


Alberto Bevilacqua

nella silloge
interpretando in versi la detenzione di mia madre nell'ospedale psichiatrico di C.
e in Le Poesie, Oscar Mondadori

 

 

 

così commentava l'origine di questi suoi versi nel "Figlio evitato":

 

"Ci fu il piccolo enigma del Figlio evitato. Riflettevo che, nel bilancio negativo di molti aspetti della mia vita, il male di mia madre si era imposto. Con effetti radicali, alcuni devastanti. Dovevo riconoscerlo con rassegnata amarezza. Avevo pagato i conti che lei aveva lasciato in sospeso dopo essere stata dilapidata. In me si era fatto ossessivo il pensiero che non ero padre, traumi e contagi materni mi avevano impedito di esserlo. Ne era nata una poesia. Fra le mie che considero più belle. L'avevo dedicata al figlio che non avevo avuto... La tenevo sul mio tavolo di lavoro. Andavo a rileggerla per provarne una pietà tutta mia, per farmi del male. Un giorno, il foglio con la poesia scomparve... Ho ritrovato il foglio con la poesia tempo dopo, fra le pagine del Diario di mia madre."

 

 

 

 

 

 

Alba e aranci

 

 

Spicca l’arancia all’alba
e bevi il succo:
io guardo il cielo, dove la ramaglia
si slancia, a frusto a frusto.
E avremo un’altra infanzia
che si smaglia
da quell’azzurro, lenta;
precipita l’arancia
dal sole alle tue mani,
e dai lontani
giardini, ove un inverno
caldo sorveglia i mari.

 

Carlo Betocchi

 

"Ci si sfila dal mondo così, / come da un vestito stanco delle feste, / quando viene la sera."

                                                            Pierluigi Cappello

Equinozio

 

Due volte all’anno notte e giorno in parti uguali,

e una volta prevale la notte mentre l’altra è il giorno

a farsi strada, due volte l’equilibrio raccoglie la sua parte

di tenebra e la sua parte di splendore prima della caduta

e il giorno che insegue ed è inseguito si raddensa in scultura.

È la corsa fermata, il miracolo di una moneta in bilico,

né testa né croce ma testa e croce insieme. Così

anch’io vivo l’equinozio quando scorro sul mio viso

di stanchezza la pelle delle mani, e dall’odore

di tabacco si apre il tuo profumo appena suggerito

che mi ferma il cuore e risale in bocca. Accado, allora,

e mi lascio portare, dentro questa cosa che mi fa accadere

affidato al tempo come una foglia nel fiume.

Senza nome, ma con il tuo nome ben inciso.

 

Pierluigi Cappello

Da Stato di quiete, Rizzoli 2016.

È molto

 

È molto ciò che regala una giornata
di primavera – ma non sappiamo spenderlo
né accumularlo, tanto
la sua moneta è in disuso.
Ti sembra astruso dar credito
al minuscolo scoppio della foglia
che sbuccia il ramo a livello di finestra,
e neppure t’accorgi di vederla
nel mattinale scontento… Ma ne dura
la gioia in te fino a sera: in una voglia
di cominciare da capo, una maldestra
baldanza nel tuo passo,
mescolato alle giovani creature,
nell’indulgenza di te… Già questo solo
basterebbe per chiudere all’attivo
il raccolto del giorno – incluso il dolo.

 

Fernanda Romagnoli
da “Il tredicesimo invitato”, Garzanti Editore

 Oggi è l’Epifania. Di che cosa?

Io non sono mai stata così sola.
Anche l’angelo tace. Tu da un mese,
angelo rinnegato.
La vita è un filo rosso. Ci attraversa
da alfa e omèga il battito del cuore.
Per tessere che cosa? Inutilmente
il filo cerca la sua cruna.

 

Maria Luisa Spaziani
da La traversata dell'oasi, Mondadori, 2002

Primo gennaio

 

So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto.
So che si può esistere
non vivendo,
con radici strappate da ogni vento
se anche non muove foglia e non un soffio increspa
l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.
So che non c’è magia
di filtro o d’infusione
che possano spiegare come di te s’azzuffino
dita e capelli, come il tuo riso esploda
nel suo ringraziamento
al minuscolo dio a cui ti affidi,
d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
So che mai ti sei posta
il come – il dove – il perché,
pigramente rassegnata al non importa,
al non so quando o quanto, assorta in un oscuro
germinale di larve e arborescenze.
So che quello che afferri,
oggetto o mano, penna o portacenere,
brucia e non se n’accorge,
né te n’avvedi tu animale innocente
inconsapevole
di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra
e una sostanza, un raggio che si oscura.
So che si può vivere
nel fuochetto di paglia dell’emulazione
senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato
da Chi volle tu fossi…e se ne pentì.
Ora,
uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
lo scheletro dell’albero di Natale,
ti accompagna in sordina il mangianastri,
torni indietro, allo specchio ti dispiaci,
ti getti a terra, con lo straccio scrosti
dal pavimento le orme degli intrusi.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perché gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa.

 

 

Eugenio Montale

(Satura, Mondadori Editore, 1971)

Ho contemplato dalla luna, o quasi,
il modesto pianeta che contiene
filosofia, teologia, politica,
pornografia, letteratura, scienze
palesi o arcane. Dentro c’è anche l’uomo,
ed io tra questi. E tutto è molto strano.
Tra poche ore sarà notte e l’anno
finirà tra esplosioni di spumanti
e di petardi. Forse di bombe o peggio,
ma non qui dove sto. Se uno muore
non importa a nessuno purché sia
sconosciuto e lontano.

 

 

Eugenio Montale 

(Fine del 68 - da Satura, Mondadori, 1971)

Lettera 1951

 

Natale altro non è che quest’immenso
silenzio che dilaga per le strade,
dove platani ciechi
ridono con la neve,

 

altro non è che fondere a distanza
le nostre solitudini,
sopra i molli sargassi
stendere nella notte un ponte d’oro.

 

Sono qui, col tuo dono che m’illumina
di dieci stelle-lune,
trasognata guidandomi per mano
dove vibra un riverbero
di fuochi e di lanterne (verde e viola),
di girandole e insegne di caffè.

 

Van Gogh, Parigi azzurra…
Un pino a destra
per appendervi quattro nostalgie
e la mia fede in te, bianca cometa
in cima.

 

Maria Luisa Spaziani

 da L’incanto di Natale, Einaudi, 2012

Voce

 

Natale è un flauto d’alba, un fervore di radici
che in nome tuo sprigionano acuti di ultrasuono.
Anche le stelle ascoltano, gli azzurrognoli soli
in eterno ubriachi di pura solitudine.

Perché questo Tu sei, piccolo Dio che nasci
e muori e poi rinasci sul cielo delle foglie:
una voce che smuove e turba anche il cristallo,
il mare, il sasso, il nulla inconsapevole.

Invisibile aria: Tu impregni ciò che vive
e solo vive se di te si impregna.
Tu sei d’ogni radice l’alto mistero in musica
che innerva il tralcio- lazzaro e lo spinge a fiorire.

 

Maria Luisa Spaziani

Si può trovare
una frammentaria divinità
anche in una scatola di sigarette, 
in un giro di danza
in un denso bicchiere di malvasia;
e ci si può suicidare
nella gioia di vivere improvvisa
d'un lunapark
nei battiti dei fucilini
ed in ogni gesto del corpo
che muova solamente il corpo
senza moto dell'anima nel corpo -
trascurando con un sorriso imprevisto
il calcolo demente dei problemi
e con elusivo gesto della mano
allontanare la disperazione. 
Non per questo si riposerà
la lunga solitudine,
né l'inganno della musica
ci porrà una mano su una spalla
contro l'uragano dell'assenza;
ma si tratta solo di ingannare
di mentire con placida umiltà
di gustare un corpo perituro
educare al nulla
una mano elegante,
abbandonarsi al dolce
amichevole vino -
gustare la joie de vivre,
dimenticare il corpo perituro
la solitudine essenziale,
- incenso di incenso devoto
offrire un fumo di sigarette
alla nostra distratta, frammentaria
divinità.

Giorgio Manganelli
da "Poesie", a cura di Daniele Piccini, Crocetti 2006
 
 
 
 
 
Mi ricorderò di questo autunno

Mi ricorderò di questo autunno
splendido e fuggitivo dalla luce migrante,
curva al vento sul dorso delle canne.
La piena dei canali è salita alla cintura
e mi ci sono immerso disseccato dalla siccità.
Quando sarò con gli amici nelle notti di città
farò la storia di questi giorni di ventura,
di mio padre che a pestar l'uva
s'era fatti i piedi rossi,
di mia madre timorosa
che porta un uovo caldo nella mano
ed è più felice d'una sposa.
Mio padre parlava di quel ciliegio
piantato il giorno delle nozze, mi diceva,
quest'anno non ha avuto fioritura,
e sognava di farne il letto nuziale a me primogenito.
Il vento di tramontana apriva il cielo
al quarto di luna. La luna coi corni
rosei, appena spuntati, di una vitella!
Domani si potrà seminare, diceva mio padre.
Sul palmo aperto della mano guardavo
i solchi chiari contro il fuoco, io sentivo
scoppiare il seme nel suo cuore,
io vedevo nei suoi occhi fiammeggiare
la conca spigata.

Leonardo Sinisgalli
(da “Poesie”, Edizioni del Cavallino, 1938)
 
 
 
 
 

Le stelle, certo, attorno alla bella luna

indietro nascondono il luminoso volto,

quando, piena, più che mai risplende

sulla terra tutta

 

Saffo

Odori

 

Ho quasi nostalgia
di quel tanfo antico 
Nei pianterreni chiusi 
ad ogni aria di luce
Ritrovo invece sempre 
l'odore delle acque ferme 
quando si fanno stagno 
sotto la quiete dei ponti
E le tracce infide 
delle mille umidità 
di quest'acqua ovunque
Che sollievo poi 
all'aprirsi di canali e calli 
il marino profumo del sole .

 

Piergiorgio Rossetti
da “Veneziando”

 

 

Amici, vorrei vedervi
più spesso - portate
il vento del mondo
esterno alla stanza
le vostre storie 
di vita - il bene
degli anni - l'affetto
la stima la conoscenza
di anni - portate
la nuvola ottobrina
- posso vederla
dal letto - ma voi 
me la portate dal cielo
che è fuori -

 

Anna Cascella Luciani
- agli amici Enzo Eric Toccaceli, Plinio Perilli, Valentina D'Urso, Roma, 2017

per strade lunghe e un lungo silenzio
faccio ritorno a casa
dove non sto dove non vivo e non ho più
cose con lo spazio dentro
né abiti nell’armadio del ricordo il viaggio
la passione tutto arriva e lignifica
una corteccia folgorata la mia scorza
come una buccia la vita staccatasi dalla mia pianta

e persino le parole che mi scheggiano da dentro l’osso
altro non sono che il mio vuoto corpo
espostosi al vento

 

Fernanda Ferraresso

Estate 

C’è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. E’ una luce che sa di mare.
Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.
Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un’erba che so
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.
Ascolti.
Le parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.


Cesare Pavese
da Lavorare stanca, Einaudi 1968
 
 
 
 
 

Ancora sulla strada di Zenna

 

Perché quelle piante turbate m'inteneriscono?
Forse perché ridicono che il verde si rinnova
a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è primavera, è un'estate,
l'estate dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la turba
e alla prossima svolta, forse finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore.
Ma l'opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite, che all'occhio di chi torna
e trova che nulla nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno,
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano.
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio rumore
s'impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.

 

Vittorio Sereni
da "Gli strumenti umani"

Non sapevo che il buio
non è nero
che il giorno
non è bianco
che la luce
acceca
e il fermarsi è correre
ancora
di più.

 

Goliarda Sapienza

Botta di salvezza

 

Ho bisogno d’inventare una rima
tra quello che sta succedendo
e qualcosa di altro.
Ho bisogno di accoppiare un vicolo cieco
in cui mi sono cacciato
a qualche sconfinata prateria.
Mi fa da ormeggio per non naufragare.
Sono predisposto al soccorso della poesia,
che non è un’arte di arrangiare fiori,
ma urgenza di afferrarsi a un bordo nella tempesta.
Per me è pronto soccorso, la poesia,
non una sviolinata al chiaro di luna.
È botta di salvezza.

 

Erri De Luca

Da "Il glicine"

 

... e intanto era aprile,
e il glicine era qui, a rifiorire.
(...)
Prepotente, feroce
rinasci, e di colpo, in una notte, copri
un intera parete appena alzata, il muro
principesco di un ocra
screpolato al nuovo sole che lo cuoce ...
E basti tu, col tuo profumo, oscuro,
caduco rampicante, a farmi puro
di storia come un verme, come un monaco:
e non lo voglio, mi rivolto – arido
nella mia nuova rabbia,
a puntellare lo scrostato intonaco
del mio nuovo edificio.
(...)
Tu che brutale ritorni,
non ringiovanito, ma addirittura rinato,
furia della natura, dolcissima,
mi stronchi uomo già stroncato
da una serie di miserabili giorni,
ti sporgi sopra i miei riaperti abissi,
profumi vergine sul mio eclissi,
antica sensualità...

 

Pier Paolo Pasolini

 

(da La religione del mio tempo, Garzanti 1961)

Tu
 
Tu, che chiamiamo anima. Tu profuga,
reietta, indesiderabile. Tu transfuga
dal soffio dell’origine.
Non ti spetta razione né coperta
né foglio di reimbarco.
Per registri e frontiere:
non esisti.
Ma in sere come queste, di cangianti
vaticinii fra i monti,
ad ogni varco
può apparire improvvisa la tua faccia
d’eremita o brigante.
«Fronda smossa,
pietra caduta» trasale in sé il passante
che la tua ombra assilla
di crinale in crinale,
mentre corri ridendo nell’occhiata
del cielo, che ti nomina e sigilla.
 
Fernanda Romagnoli, Il tredicesimo invitato (1980) Libri Scheiwiller, 2003 (I ediz., Milano, Garzanti, 1980).

Aprile dal bel nome
quando sono nata
io stessa con nomi curiosi
di bei significati
per dire che ero pratolina
e questo e quest’altro
e che dovevo vivere
(da una parte o dall’altra)
per dire donata
(o donanda)

 

insomma sono nata d’aprile
in montagna.

 

Vivian Lamarque

Incespicare
.
Incespicare, incepparsi
è necessario
per destare la lingua
dal suo torpore.
Ma la balbuzie non basta
e se anche fa meno rumore
è guasta lei pure. Così
bisogna rassegnarsi
a un mezzo parlare. Una volta
qualcuno parlò per intero
e fu incomprensibile. Certo
credeva di essere l'ultimo
parlante. Invece è accaduto
che tutti ancora parlano
e il mondo
da allora è muto.

 

Eugenio Montale

Satura, Mondadori 1971

Fine dell’infanzia 

Rombando s’ingolfava
dentro l’arcuata ripa
un mare pulsante, sbarrato da solchi,
cresputo e fioccoso di spume.
Di contro alla foce
d’un torrente che straboccava
il flutto ingialliva.
Giravano al largo i grovigli dell’alighe
e tronchi d’alberi alla deriva.

Nella conca ospitale
della spiaggia
non erano che poche case
di annosi mattoni, scarlatte,
e scarse capellature
di tamerici pallide
più d’ora in ora; stente creature
perdute in un orrore di visioni.
Non era lieve guardarle
per chi leggeva
in quelle apparenze malfide
la musica dell’anima inquieta
che non si decide.

Pure colline chiudevano d’intorno
marina e case; ulivi le vestivano
qua e là disseminati come greggi,
o tenui come il fumo di un casale
che veleggi
la faccia cadente del cielo.
Tra macchie di vigneti e di pinete
petraie si scorgevano
calve e gibbosi dorsi
di collinette: un uomo
che là passasse ritto su un muletto
nell’azzurro lavato era stampato
per sempre - e nel ricordo.

Poco s’andava oltre i crinali prossimi
di quei monti; varcarli pur non osa
la memoria stancata.
So che strade correvano su fossi
incassati, tra garbugli di spini,
mettevano a radure, poi tra botri,
e ancora dilungavano
verso recessi madidi di muffe,
d’ombre coperti e di silenzi.
Uno ne penso ancora con meraviglia
dove ogni umano impulso
appare seppellito
in aura millenaria.
Rara diroccia qualche bava d’aria
sino a quell’orlo di mondo che ne strabilia.

Ma dalle vie del monte si tornava.
Riuscivano queste a un’instabile
vicenda d’ignoti aspetti
ma il ritmo che li governa ci sfuggiva.
Ogni attimo bruciava
negl’istanti futuri senza tracce.
Vivere era ventura troppo nuova
ora per ora, e ne batteva il cuore.
Norma non v’era
solco fisso, confronto,
a sceverare gioia da tristezza.
Ma ri-addotti dai viottoli
alla casa sul mare, al chiuso asilo
della nostra stupita fanciullezza,
rapido rispondeva
a ogni moto dell’anima un consenso
esterno, si vestivano di nomi
le cose, il nostro mondo aveva un centro.

Eravamo nell’età verginale
in cui le nubi non sono cifre o sigle
ma le belle sorelle che si guardano viaggiare.
D’altra semenza uscita
d’altra linfa nutrita
che non la nostra, debole, pareva la natura.
In lei l’asilo, in lei
l’estatico affisare; ella il portento
cui non sognava, o a pena, di raggiungere
l’anima nostra confusa.
Eravamo nell’età illusa.

Volarono anni corti come giorni,
sommerse ogni certezza un mare florido
e vorace che dava ormai l’aspetto
dubbioso dei tremanti tamarischi.
Un’alba dové sorgere che un rigo
di luce sulla soglia
forbita, ci annunziava come un’acqua;
e noi certo corremmo
ad aprire la porta
stridula sulla ghiaia del giardino.
L’inganno ci fu palese.
Pesanti nubi sul torbato mare
che ci bolliva in faccia, tosto apparvero.
Era in aria l’attesa
di un procelloso evento.
Strania anch’essa la plaga
dell’infanzia che esplora
un segnato cortile come un mondo!
Giungeva anche per noi l’ora che indaga.
La fanciullezza era morta in un giro a tondo.

Ah il giuoco dei cannibali nel canneto,
i mustacchi di palma, la raccolta
deliziosa dei bossoli sparati!
Volava la bella età come i barchetti sul filo
del mare a vele colme.
Certo guardammo muti nell’attesa
del minuto violento;
poi nella finta calma
sopra l’acque scavate
dové mettersi un vento.

Eugenio Montale, Ossi di seppia

Stupore

 

Debbo essere venuto al mondo 
affetto da inguaribile stupore
e naufrago rimasto sulla riva
ancora sono bagnato dall'ignoto,
da quel nero fondo prima d'esser nato
mare color d'ardesia incatramato.
E mi rallegra il sole 
col verde, il rosso, il giallo,
l’azzurro ed il marrone, e la notte
col nero di bianco puntinato.
Nessun programma per domani,
tanto deploro uno spettacolo sciupato,
e più rivedo il film, più mi consolo,
sono ripetente di un giorno solo.

 

Un ripetente, che dall’ultimo banco 
grida presente, in nome d'un mondo 
vivo che in altra vita evolve pellegrino.
Un naufrago che dalla sua riva
di colorato incanto invoca 
una breccia nella morta materia
di cui la vita nasce prigioniera 
e a cui infine si arrende.
Pietà, pietà signore,
di ogni sorpresa di ogni stupore, 
una breccia basta solo una breccia
e l'anima respira.

 

Daniele Bollea
(da Lathe Biosas)

 

 

Ai tuoi piedi

Mi sono inginocchiato ai tuoi piedi
o forse è un’illusione perché non si vede
nulla di te
ed ho chiesto perdono per i miei peccati
attendendo il verdetto con scarsa fiducia
e debole speranza non sapendo
che senso hanno quassù il prima e il poi
il presente il passato l’avvenire
e il fatto che io sia venuto al mondo
senza essere consultato.
Poi penserò alla vita di quaggiù
non sub specie aeternitatis,
non risalendo all’infanzia
e agli ingloriosi fatti che l’hanno illustrata
per poi accedere a un dopo
di cui sarò all’anteporta.
Attendendo il verdetto
che sarà lungo o breve grato o ingrato
ma sempre temporale e qui comincia
l'imbroglio perché nulla di buono è mai pensabile
nel tempo,
ricorderò gli oggetti che ho lasciati
al loro posto, un posto tanto studiato,
agli uccelli impagliati, a qualche ritaglio
di giornale, alle tre o quattro medaglie
di cui sarò derubato e forse anche
alle fotografie di qualche mia musa
che mai seppe di esserlo,
rifarò il censimento di quel nulla
che fu vivente perché fu tangibile
e mi dirò se non fossero
queste solo e non altro la mia consistenza
e non questo corpo ormai incorporeo
che sta in attesa e quasi si addormenta.

Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni

Miracoli


Ti lascio abitare ogni angolo 
della casa, far parte
di un quadro, scegliere
il film

il vaso dei fiori però
riempilo 
ogni volta che puoi

l’odore sugli abiti lo tengo 
stretto, lo stomaco anche
quando siedi con me 
sul divano

sono piccoli miracoli le isole 
che fa la vita, questo adagiarsi 
di polvere e sole 
che veste gli spazi, impregna
ogni singola fibra
ma non ci contiene del tutto

e non dico di te 
perché sei solo tu
soltanto
la radice 
che lega le lingue
tu solo conosci il nome 
di tutte le stanze, il ritrarsi 
del lago quando fa notte 

io faccio 
come se niente fosse

come la pioggia
del mio starti accanto.

Anna Salvini, Calma apparente (Interno Poesia)

(la sera sono le molecole)

La sera sono le molecole 
della tua voce nel giro 
del mio sangue. 
La sera è questo passo 
dentro la mia carne. 
La sera è questo grumo 
di luci alle finestre, 
il momento sui marciapiedi, 
- l'abat jour di mia madre
dolce scheggia nel petto.

La sera è questo tramonto 
che dissangua la strade 
è il mio passo fermo, 
i tendini rilassati, gentili.
La sera è questo martello 
nei miei polmoni 
che è 
il tuo respiro 
quando 
mi manca.

 

Giuseppe Condorelli

A Franco Basaglia

Il vento, la bora, le navi che vanno via
il sogno di questa notte
e tu
l'eterno soccorritore
che da dietro le piante onnivore
guardavi in età giovanile
i nostri baci assurdi
alle vecchie cortecce della vita.

Come eravamo innamorati, noi,
laggiù nei manicomi
quando speravamo un giorno
di tornare a fiorire
ma la cosa più inaudita, credi,
è stato quando abbiamo scoperto
che non eravamo mai stati malati.

Alda Merini

Io t’aspetto allo svolto d’ogni via,
Perdizione, ti cerco dentro gli occhi
d’ogni donna che passa…
Sosto dai baracconi nelle fiere
a guardare la donna del serpente,
la fanciulla che vola…
Oh la gioia di dar tutto per nulla!
di tenere in conto d’una paglia
questa vita che è il solo nostro bene!
Quella che tutti ebbero, che ride
facile, che d’un muovere dell’anca
dentro tutto il mio mondo mi dissolva,
io prego che la strada m’attraversi.
Io come il mendicante che a dispregio
l’unico soldo che possiede getta
per lei la vita getterei, per meno. 

Camillo Sbarbaro
(Pianissimo)

Angelo della mattina

Angelo della mattina
risvegliami ancora
per la nuova fulgente aurora
che s’arrossa sull’orizzonte o s’incrina.

Io sono uno strano mendicante
che chiede amore e parole,
sono un solitario emigrante
verso le terre della luce e del sole.

Vienimi coi tuoi fulgori,
angelo che non ristai,
coi tuoi infiniti fulgori
colle movenze che tu sai,

e crescimi delle meraviglie,
di quanto raccogli negli occhi neri,
degli infiniti misteri
che tu celi dentro l’arco dei cigli.

Fammi conoscere ciò che tu conosci
i riflessi della tua bocca chiara;
mutevolmente nel mio cuore gia amara
è una musica una magica forma, in una pioggia che scrosci.

Lorenzo Calogero 
da 25 Poesie (1932-33)
 

Per questi luoghi cui appartengo
in modo irrevocabile, mi muovo
e mi ritrovo nell’irrilevanza delle cose
che stanno, cariche d’abitudine
e di una mancanza che ingombra
e se non fosse questo piccolo dolore,
questo spillo sapiente
che mi appunta per un osso alla vita
direi che sono un post– it note
di incombenze evase
lasciato sul frigo da una distrazione.

 

(È quasi utopia nella memoria
il tuo volto così puro, inconciliabile
con la prosa delle umane occupazioni).

 

Così – come accade talvolta
nel più disarmante dei sogni –
vivo i fatti dal di fuori
quale immagine muta di specchio.
Vivo dell’esigua rendita di un bene
nel quale mi convenne credere
e dei tanti miserere preventivi
che recitò mia nonna in lascito
alla sua smarrita discendenza.

 

Maria Grazia Di Biagio

L’ultimo giorno dell’anno

 

L’ultimo giorno dell’anno
non è l’ultimo giorno del tempo.
Altri giorni verranno
ed altre cosce e ventri ti comunicheranno
il calore della vita.
Bacerai bocche, strapperai lettere,
farai viaggi e tanti festeggiamenti
di compleanni, laurea, promozioni, gloria,
una morte dolce con sinfonie e cori,
tanto che il tempo sarà colmo
e non sentirai il clamore,
gli irreparabili ululati
del lupo, nella solitudine.

 

L’ultimo giorno del tempo
non è l’ultimo giorno di tutto.
Avanza sempre una frangia di vita
in cui si siedono due uomini.
Un uomo e il suo contrario,
una donna e il suo piede,
un corpo e la sua memoria,
un occhio e la sua luce,
una voce e la sua eco,
e chissà anche Dio…

 

Accetta con semplicità questo dono del caso.
Ti sei meritato un altro anno di vita.
Vorresti vivere per sempre e consumare la feccia dei secoli.
Tuo padre è morto, anche tuo nonno.
Anche in te molto si è estinto,
il resto sbircia la morte,
ma sei vivo.
Ancora una volta sei vivo,
e col bicchiere in mano
attendi l’alba.

 

La risorsa del bere.
La risorsa della danza e del grido,
la risorsa della palla colorata,
la risorsa di Kant e della poesia,
tutte insieme… e nessuna serve.
È tutto pulito, in ordine.
Il corpo esausto si rinnova nella schiuma.
Tutti i sensi all’erta funzionano.
La bocca sta masticando vita.
La bocca s’ingozza di vita.
La vita scorre dalla bocca,
imbratta le mani, la strada.
La vita è grassa, oleosa, mortale, surrettizia.

 

Carlos Drummond de Andrade

Quello che resta
canzone

 

Lascia che sia, lascia che sia
non lo contrastare,
alla fine è questo cielo della sera
quello che resta, i rumori delle cose lontane
e questo colore pallido e luminoso insieme
acceso e bruno nello stesso tempo.
Alla fine quello che resta sono i rumori
delle cose lontane, che si fanno dolci, che passano,
alla fine quello che resta è questo nostro passare,
essere passati e dover ancora passare,
questo rumore il fondo come il mormorio di un ruscello
o un chiacchiericcio sommesso, che ti concilia il sonno.

 

© Inedito di Claudio Damiani

Prima di essere re
e pane e flauto e barca
fui uccello dei cieli,
fiamma che guizza, vento:
io che il giorno degli ansimi
che la notte dei sogni,
mai non conosco quiete,
né mai smetto l'inganno
- uomo dai piedi lenti-
di ridurre la fine
dei mondi rotolanti,
delle stelle infinite,
alle poche stagioni
della mia voce esile.

Elio Pecora

Infanzia

Forse fu solo sciatta, solo confusa
(il paradiso prossimo-toccato
nei gigli d'oro del parato azzurro;
al di là della porta chiusa a chiave
la strada buia e un passo affannato)
forse là, in quella stanza,
il tracciato-l'abbaglio
e vale ancora se cerchi l'uscita
dove t'attenda il gallo dei risvegli
e una stagione tutta di mattini
lievi sospesi chiari interminati.

Forse già allora sapesti la pena
(un angelo paziente vigilava
contro quel buio, contro quell'affanno;
se in quel recinto durava l'esilio
partirne era la perdita, l'assenza)
e seguiti ad andare in quella stanza
e vi cerchi l'abbaglio e la paura
la stagione che dura
oltre le chiarità, oltre i mattini,
e resisti e sei quello e questo ancora
che si chiama-ti chiama fratello:

come il tramonto all'aurora.

Elio Pecora


Ancora apprestando la cena

Ancora apprestando la cena
parliamo delle cose di ieri.
Sai, come sciarpa tiepida
ho avvolto intorno al collo la pena
stranamente godendola.
Mi racconti i tuoi amori
quelli di oggi e quelli
che domani attendi,
l’amore grande che presto
venga a domarti
un lunghissimo tempo.
T’ascolto senza gridare
perché io devo capire
che un nuovo sole ti scalda:
io chiedo un silenzio
spalancato d’anima.
(Comprerò anemoni scuri
e gialla mimosa
per la mia stanza d’ombra).
Eravamo la goccia che chiude il mondo
e l’incauta felicità
la nota che s’alza dal flauto
e penetra il cielo. Tu vai
in questo febbraio di vento,
poi apprestando la cena
parliamo delle cose di ieri.

Elio Pecora

Un altro lunedì

«Dico chi finirà all’Inferno:
i giornalisti americani,
i professori di matematica,
i senatori e i sagrestani.
i ragionieri e i farmacisti
(se non tutti, in maggioranza);
i gatti e i finanzieri,
i direttori di società,
chi si alza presto alla mattina
senza averne necessità.
Invece vanno in Paradiso
i pescatori ed i soldati,
i bambini, naturalmente,
i cavalli e gli innamorati.
Le cuoche e i ferrovieri,
i russi e gli inventori;
gli assaggiatori di vino;
i saltimbanchi e i lustrascarpe,
quelli del primo tram del mattino
che sbadigliano nelle sciarpe».
Cosi Minosse orribilmente ringhia
dai megafoni di Porta Nuova
nell’angoscia dei lunedì mattina
che intendere non può chi non la prova.

Primo Levi
Avigliana, 28 gennaio 1946.
da “Ad ora incerta”

Finestra

E’ caduta ogni pena. Adesso piove
tranquillamente sull’eterna vita.
Là sotto la rimessa, al suo motore,
è – di lontano – un piccolo operaio.
Dal chiuso libro adesso approdo a quella
vita lontana. Ma qual è la vera
non so
E non lo dice il nuovo sole
Forse invecchio, se ho fatto un lungo viaggio
sempre seduto, se nulla ho veduto
fuor che la pioggia, se uno stanco raggio
di vita silenziosa..
(gli operai pigliavano e lasciavano il mio treno,
portavano da un borgo a un dolce lago
il loro sonno coi loro utensili).
Quando giunsi nel letto anch'io gridai:
uomini siamo, più stanchi che vili.
Fuggono i giorni lieti
lieti di bella età.
Non fuggono i divieti
alla felicità.
Alta estate notturna.
Le tue finestre colme
di vita famigliare. Il mio silenzio
entro il buio fogliame.
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune
Il viaggiatore insonne
se il treno si è fermato
un attimo in attesa
di riprendere il fiato
ha sentito il sospiro
di quel buio paese
in un accordo breve...
Sempre affacciato a una finestra io sono,
io della vita tanto innamorato.
Unir parole ad uomini fu il dono
breve e discreto che il cielo mi ha dato.

Sandro Penna

Forse invecchio, se ho fatto un lungo viaggio
sempre seduto, se nulla ho veduto
fuor che la pioggia, se uno stanco raggio
di vita silenziosa… (gli operai
pigliavano e lasciavano il mio treno,
portavano da un borgo a un dolce lago
il loro sonno coi loro utensili).
Quando giunsi nel letto anch’io gridai:
uomini siamo, più stanchi che vili.

Sandro Penna
(Poesie, Garzanti Editore – Gli Elefanti, 2010)

Risarcimento

La vita non sempre fa male,
può stracciarti le vele, rubarti il timone,
ammazzarti i compagni a uno a uno,
giocare ai quattro venti con la tua zattera,
salarti, seccarti il cuore
come la magra galletta che ti rimane,
per regalarti nell’ora
dell’ultimo naufragio
sulle tue vergogne di vecchio
i grandi occhi, il radioso
innamorato stupore
di Nausicaa.

Gesualdo Bufalino

.

Lettera levantina

Vorrei che queste sillabe
che con mano esitante di scolaro
io traccio a fatica per voi,
vi giungessero in un giorno d’oscura
noia; quando il meriggio
non rende altra parola
che quella d’una gronda che dimoia;
e in noi non resiste una sola
persuasione al minuto che róde
e i muri candidi ci si fanno incontro
e l’orrore di vivere sale a gola.

Per certo vi sovverrete allora
del compagno di tante ore passate
nelle vie lastricate di mattoni,
che tagliano, seguaci a infossamenti e ascese,
i nostri colli nani cui vestono le trine
rade di spogli rami.
E vi parrà di correre non più sola
Sotto i dòmi arruffati degli olivi
Tra abbrivi e brusche soste,
come rimpiccinita in un baleno.
O il ricordo vi si farà pieno
degli alberi che abbiamo conosciuti,
e rivedrete le barbate palme
ed i cedri fronzuti,
o i nespoli che tanto amate.

Questo è il ricordo di me che vorrei porre
nella vostra vita:
essere l’ombra fedele che accompagna
e per sé nulla chiede;
l’imagine che esce fuori da una stampa tarmata,
scordata memoria d’infanzia, e crea un istante di pace
nella convulsa giornata.
E delle volte se una forza ignota
vi regge in un groviglio
di brucianti ore,
oh illudervi poteste
che v’ha preso per mano alcuni istanti
nel segreto,
non l’Angelo dei libri edificanti
ma il vostro amico discreto!

Ascoltate ancora, voglio svelarvi qual filo
unisce le nostre distanti esistenze
e fa che se voi tacete io pure v’intendo, quasi
udissi la vostra voce che ha ombre e trasparenze.
Un giorno mi diceste della vostra infanzia
scorsa frammezzo ai cani e alle civette
del padre cacciatore; ed io pensai che foste
permeata da allora dell’essenza
ultima dei fenomeni, radice
delle piante frondose della vita.
Così mentre le eguali
vostre inconscie nei giuochi
trapassavano i giorni, e tra le vane
cure del mondo, ignave,
i vostri pochi Autunni,
amica, sì puri di stigmate,
scorgevano già dell’enigma
che ci affatica, la Chiave.

Anch’io sovente nella mia rustica
adolescenza levantina
salivo svelto prima della mattina
verso le rupestri cime che s’inalbavano;
e m’erano allato
compagni dal volto bruciato dal sole.
Zitti stringendo nei pugni
annosi archibugi,
col fiato grosso s’andava nel buio;
o si sostava, a momenti,
per misurare a dita
la polvere nera e i veccioni
pestati in fondo alle canne.
Attendevo affondato in un cespuglio
che la lunga corona
dei colombi selvatici
salisse dalle vallette
fumide degli uliveti
volta al cacume, ora adombrato ed ora
riassolato, del monte.
Lentamente miravo il capo-fila,
grigio sopravanzante, indi premevo
lo scatto; era la bòtta nell’azzurro
sécca come di vetro che s’infrange.
Il colpito scartava, dava all’aria
qualche ciuffo di piume, e scompariva
come un pezzo di carta in mezzo al vento.
D’attorno un turbinare d’ali pazze
e il sùbito rifarsi del silenzio.

E ancora appresi in quelle mie giornate
prime, guardando
il lepre ucciso nelle basse vigne
o il cupreo scoiattolo che reca
la coda come una torcia
rossa da pino a pino,
che quei piccoli amici della macchia
portano a lungo talvolta
nel cuoio i pallini minuti
d’antiche sanate ferite
prima che un piombo più saldo
li giunga a terra per sempre.

Forse divago; ma perché il pensiero
di me e il ricordo vostro mi ridestano
visioni di bestiuole ferite;
perché non penso mai le nostre vite
disuguali
senza che il cuore evochi
sensi rudimentali
e imagini che stanno
avanti del difficile
vivere ch’ora è il nostro.
Ah intendo, e lo sentite
voi pure: più che il senso
che ci rende fratelli degli alberi e del vento;
più che la nostalgia del terso
cielo che noi serbammo nello sguardo;
questo ci ha uniti antico
nostro presentimento
d’essere entrambi i feriti
dall’oscuro male universo.

Fu il nostro incontro come un ritrovarci
dopo lunghi anni di straniato errare,
e in un attimo il guindolo del Tempo
per noi dipanò un filo interminabile.
Senza sorpresa camminammo accanto
con dimesse parole e volti senza maschera.
Penso ai tempi passati
quando un cader di giorno o un rifarsi di luce
mi struggevano tanto
ch’io non sapevo con chi mai spartire
la mia dura ricchezza, e pure intorno
di me sentivo fluire una potenza
benevolente, sorgere impensato
fra me e alcun altro un fermo sodalizio.

Intendo ch’eravate già al mio fianco
in quegli istanti; che vi siete ancora,
se pur lontana, in questo giorno stanco
che finisce senza apoteosi;
e che insieme guardiamo beccheggiare
tra i marosi e le spesse brume
le scogliere delle Cinqueterre
flagellate dalle spume.

Eugenio Montale 
(Da Poesie disperse, in ‘’Tutte le poesie’’, I Meridiani Mondadori 2005)
 
 
 

Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
e' dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case

 

Eugenio Montale

da "Ossi di seppia"

Se mi stacco da te, mi strappo tutto

Se mi stacco da te, mi strappo tutto
Ma il mio meglio (o il mio peggio)
ti rimane attaccato, appiccicoso, 
come un miele, una colla, un olio denso.
Ritorno in me, quando ritorno in te 
(e mi ritrovo i pollici e i polmoni).
Tra poco atterro a Madrid:
(in coda qui all’aereo, selezionati miei connazionali,
gente d’affari, dicono numeri e numeri, mentre bevono 
e fumano, eccitati, agitatamente ridendo).
Vivo ancora per te, se vivo ancora.

Edoardo Sanguineti

Occhiali

 

mi sono riadattato agli occhiali (che la patente, a me, rende obbligati, ormai),
in un paio solo di giorni: vedo tutto più netto: (ma niente mi è, per questo,
diventato migliore, in verità: un semaforo è sempre un semaforo, un marciapiede
è un marciapiede: e io sono sempre io, così):
(quanto al doloroso senso di capogiro,
vaticinato, con l’emicrania, da un Istituto Ottico di corso Buenos Aires, al quale
mi sono rivolto, questa volta, l’ho sperimentato e l’ho superato): (l’oculista
affermava che, con il tempo, io mi ero costruito una mia rappresentazione aribitraria
della realtà, adesso destinata, con le lenti, a sfasciarsi di colpo):
(e ho potuto
sperare, per un attimo, di potermi rifare, a poco prezzo, una vita e una vista):

 

Edoardo Sanguineti

(da Segnalibro, Feltrinelli 1982)

Questo stare
nel gesto paziente
della maturazione
ci riguarda.
Aspetteremo
come dentro
una silenziosa conversazione.
Aspetteremo
come il fiore nel campo
la mano desiderata
del bambino.

Non puoi dire
che la goccia che squilla
sulla padella di rame
non è un suono
un timido modo
del cantare.

Devi fare
come l’aquila
che sconfigge gli sciami
col suo colpo d’ala.
Devi fare
come il ciliegio
che si compiace
della sua chioma
rossa

devi

devi

devi

ti avevo chiesto un bacio, un qualsiasi
avvertimento
dell’amore
invece mi lasci
come il figlio fermo
col secchiello sul molo e un mare
immenso davanti.

Francesco Iannone
Pietra lavica (Aragno, 2016)

Porta aperta

 

Non so bene cosa ci abbia portati qui
che cosa sia rimasto di noi,
sarà stato il diventare presto
un modo di essere soli e risonanti nel buio
mentre la notte ancora non viene
e dai verdi rassodati dalle molte piogge
si stacca un’altra volta l’estate,
una sospirata ingenuità si allontana.
E un posto tanto vuoto che pare ti appartenga
allunga un’ombra sull’ombra che sembrava la tua.


Pierluigi Cappello
agosto 2011

Ritorno a questa via, dove son nato
come una luce alla sua stella esplosa.
È questo il mio viaggio, questi
portoni, i due scalini di lavagna, le
facciate alte, scrostate, con le finestre
cieche, la salita, l’arco che segnava
il confine, giù la mia casa
che aveva la veranda sul cortile di
muschio e rovi attorno a un pozzo, e
il terrazzino azzurro, il pergolato
in bilico sopra gli orti dei nespoli.
Dietro quelle persiane, al terzo piano,
ci fu l’amore, c’era la guerra fuori
i soldati tedeschi ormai allo stremo, in
fuga. Il destino è tornare dove si è nati.
Lo sanno tutti i fiori, i templi, i soli
che sono come noi ancora da alzare
non profetati, e già polvere.

Giuseppe Conte
(Poesie - Oscar Mondadori)

Saprò annodarmi la cravatta a farfalla? 

Saprò annodarmi la cravatta a farfalla? 
bilanciare d’un sol colpo le bretelle 
dietro le spalle? questo non altro 
diceva il me stesso turbato quando 
il mattino saltavo piedi nudi sul loro letto 
e assistevo al rito 
accucciato nello stampo ancora caldo 
ignorando la mamma cui stavo accanto 
per il papà riflesso nello specchio 
col rasoio a mano libera su una guancia insaponata - 
stranamente quel gesto veloce 
mi ridava la stessa fiducia 
della volta che mi tenne ben saldo tra le gambe 
che mi tolse in due colpi le tonsille 
e un fiotto del mio sangue 
si rovesciò sullo specchio frontale 
per un attimo accecandolo. 

Nelo Risi 
(da "Amica mia nemica")

Ora e sempre più viva 
Sarà la smania di far notte in me solo 
E cercar scampo e riposo 
Nella mia storia più remota 
Ogni sera mi vado incontro a ritroso. 

Leonardo Sinisgalli

“Tu non ricordi / ma in un tempo / così lontano che non sembra stato / ci siamo dondolati / su un’altalena sola // Che non finisse mai quel dondolio / fu l’unica preghiera in senso stretto / che in tutta la mia vita / io abbia levato al cielo”. 

Michele Mari

 

mi conquistano le date
migratorie – quel partire
in volo degli uccelli –
quei viaggi celesti –
sortilegio resistente –
istintivo – sapiente
del dirigersi – andare
quel venirci a trovare
pur senza conoscerci –
miracolata specie – immune
dalla certezza fatale
del tracciato –

Anna Cascella Luciani

Disguîd d’un grîs
c’an dîs d’un grîd
l’òmbra cla cambiè

la mî strè tàinti vôlt.
... E la vétta, dla mî vétta,
’na sfialôpa cunténnua
cla brûsa e l’an s’arsòura
t’ê fât

 

 

Disguido di un grigio / che non dice l’ombra di un grido / che ha cambiato / la mia strada tante volte. / ... E la vita, della mia vita, / la ferita / che brucia e non si rimargina / hai fatto

 

Stefano Delfiore
da "inoltranze"

Dove la luce

Come allodola ondosa
Nel vento lieto sui giovani prati,
Le braccia ti sanno leggera, vieni.
Ci scorderemo di quaggiù,
E del mare e del cielo,
E del mio sangue rapido alla guerra,
Di passi d'ombre memori
Entro rossori di mattine nuove.
Dove non muove foglia più la luce,
Sogni e crucci passati ad altre rive,
Dov'è posata sera,
Vieni ti porterò
Alle colline d'oro.
L'ora costante, liberi d'età,
Nel suo perduto nimbo
Sarà nostro lenzuolo

Giuseppe Ungaretti

IV

 

Ho nascosto in un cassetto vuoto
il pacchetto di morte sigarette
che avevi stretto nella mano oscura:
per trovarlo nel buio senza attendere
e riprenderci l'impulso della vita.

Sui tuoi occhi ho perduto la mia morte
e col terrore d'essere felice
ho spiato il potere dell'amore.

E in un antico sonno musicale
ho danzato fino all'altopiano
dove tu dormivi inaccessibile,
e furtivo ho appoggiato alla scarpata
la bianca scala del mio inondato sogno:
ma aveva gradini troppo nudi
e per raggiungerti
dovevo camminare sul mio cuore;
e mi sono arrampicato sulla tua
e ad ogni passo ho calpestato un nome -
nomi che ricordavano e ridevano...

E nell'azzurro reale del mattino
ho adorato i sogni chiusi della notte
che si ricordano fino ad una curva.

 

Massimo Ferretti, Allergia (Garzanti)

Ma quanto vissi? E sempre

Sono tant’anni, forse
sono secoli ormai che la dolcezza
di risvegliarmi provo, di vedere
intorno a me le cose conosciute,
spente, e le vive. Sono forse secoli.
Ma quanto vissi? E sempre
mi sveglierò a toccare
i mali miei, le amate
cose d’intorno? Come calmo è il sole
sulla mia faccia, sopra le mie mani,
eppure un giorno finirà.
. Non voglio,
pensare a questo. Chi raccoglie al mio
posto le voci che raccolsi? Il mesto
saper di vita chi raccoglie, mio?
Ma quanto tempo vissi! Ora mi pare
la vita sfumi, e non vorrei: ché buono
ha sapore, di pane.
Scaldami, Sole, vieni qui. Ho timore
freddo che il Sole ora si stanchi, e guai
se questo avviene, se si fredda il Sole.
Come svegliarsi una mattina, e piove
nero sui vetri, e gridano campane
funeste. Male. Che risplenda il Sole
sopra le mani mie voglio, e penètri
fino nell’ossa, e le consoli e prema.

Anna Maria Ortese

La casa

Ho abitato più di una casa
e di ognuna niente è perduto:
la prima in Corso dante, quando ero bambino
e i pini crescevano sotto masse di neve,
poi Viale degli Angeli, sull’argine del fiume:
di lì mia madre mi vide partire
in automobile, guardando dal balcone
la Terra di Nessuno che mi rapiva,
e poi Valdieri, e nella luce radiosa
Via delle Palme, in Liguria, sul mare,
e Via Marsili 11, a Bologna
dove ho salito infinite scale,
e ora qui, a Milano, in Via Mameli.
Di tutte ricordo le voci, i volti, le persone,
l’impercettibile respiro respirato
e trasformato in forma di pensiero
nella memoria che mi tiene in vita.

Ma solo per poco ognuna di loro
È stata veramente la mia casa,
nel breve tempo in cui mi era straniera,
prima che entrasse in me, con le sue vite.
Io non ho mai davvero abitato una casa,
io sono la casa di ogni casa con loro,
con tutti quelli che la fecero mia,
così presenti che non sono più io,
unico esule in me, sfrattato dal mio cuore.

Roberto Mussapi,
(da: La stoffa dell’ombra e delle cose, 2007)

MARG
Non saprei dire se di giorno o di notte se calpestando
io l'opposto marciapiede oppure se rapido
una volta di più passando
via con la macchina
ricordo però assai bene d'aver letto qualche mese
fa giusto al principio
dell'inverno
scritto a caratteri maiuscoli e cubitali sopra un intonaco
dilavato di periferia con un pennello
intinto in una scura vernice color sangue
rappreso
- e facevano le lettere una specie d'arco in lieve un poco esitante
salita quasi ad esprimere
anch'esse nel loro incerto flettersi la tenerezza
commemorante d'ogni supremo
addio -
ciao dolcissima Marg proprio così
CIAO DOLCISSIMA MARG. e
nient'altro
Dove sei Marg - non faccio da allora che chiedermi - dove vivi in quale
anonimo quartierino del Salario del Tiburtino o del
Trionfale
dormi vegli parli mangi ridi sospiri gridi
piangi eccetera
trascini da una stanzuccia all'altra fino all'asfittico
balconcino la già molle
tua anca di imminente
Margherita
fai ondeggiare fra le magre scapole lunga
fino alla vita fino all'esile
giro dei blue
jeans
la fulva enorme
treccia
e dove mai sarà lui soprattutto - ignoto
completamente al comune lager metropolitano e forse persino
a te stessa -
lui l'ugualmente dolcissimo tuo
poeta ?

Giorgio Bassani, da Epitaffio, 1974

Commiato

Scordami qui, disteso coi più vecchi, assopito
nel campo tutto arreso a uno sguardo infinito
.
Giorgio Bassani, da "L’alba ai vetri". Poesie 1942-’50, Torino, Einaudi, 1963

Apro la pelle ai giorni

Apro la pelle ai giorni
e mi faccio coraggio
oggi per domani e domani ancora
fino ad innamorarmi della notte
e poi del giorno 
come se fossi al primo inchino
alla vita.
Perché non posso spaventarmi
della prima ombra che appare
o della ferita che sanguina appena.
Allora cammino a piedi scalzi
tra le cose 
inciampo cado mi rialzo
e consumo gli occhi ad esplorare il cielo
pur di non perdermi nemmeno un attimo
della luce che nasce
o del sole che si spegne nella sera.
Conservo anche l’odore delle macerie
ed il peso delle lacrime 
sulle guance
senza smettere di amare
quel poco che basta 
per dare un senso al fiore
o al ramo che si spezza.

Michela Zanarella

 

Scrivo per te, mia amata

Scrivo per te, mia amata. Io ti scrivo
dal futuro che non abbiamo avuto,
guardo il mare, la tua torre, il tempo,
l'isolotto, i monti che a raggiera
calano nelle acque con le loro
molli gobbe preistoriche
e nulla è cambiato, è tutto fermo lì,
ogni scaglia di quel drago silente
brilla e si staglia al vento netta in cielo,
ma la strapazza il mare, ed ogni pietra
ne trae sollievo prima di affrontare
una giornata asciutta e disperata.
Ah, se sapessi scrivere l'assenza
io piccolo e sfrontato ti darei
nuovamente la vita per toccarti
un poco con la punta delle dita.

*

Scrivo ancora per te

Scrivo ancora per te mia amata, scrivo
se apro una finestra e vedo fuori
la nebbia che si leva all'orizzonte,
ha un colore più tenue dove l'aria
va nel mondo dell'acqua: lì nel taglio
morivano balene e nei sargassi
le navi, ora la nebbia li raccoglie
e forse li consola i marinai
del passato, le loro avventure,
i corpi al mare e il sangue sulle vele,
lo scòrbuto e il silenzio, i grandi spazi
senza gabbiani e senza più la pesca
miracolosa, solo vecchi scafi
rugginosi tra i rovi del costone,
e non so più se è il vento o quel mare
se limaccioso, sabbie, pietre, spiagge
o profondo e roccioso, nero, se è il vento
che apre tutte le scogliere e batte
quelle carene d'assi e d'animali
o le addormenta e liscia, il vento oggi
non è violento e ancora vedo fuori
il piccolo paese medievale
o, fra i rovi, la spiaggia con le barche
e un uomo con la testa tra le mani,
e una donna, te, cui ancora scrivo.

Giorgio Manacorda

da Scrivo per te, mia amata e altre poesie (1974-2007), Libri Scheiwiller

WhatsApp chat