Pasolini e Montale su carta
Due mostre singolarmente affini si sono aperte in questi giorni in Casa Testori, appena fuori Milano, e nel Museo d'Arte di Mendrisio, poco oltre il confine svizzero. La prima ricompone il sodalizio, fondato non sulla frequentazione ma sulle comuni passioni civili e intellettuali, che legò Giovanni Testori e Pier Paolo Pasolini (stessa generazione: 1922 e 1923), provato anche dalla difesa appassionata che questi alzò contro gli attacchi all'Arialda di Testori e dall'articolo commovente che lui scrisse in morte di Pasolini. Per questa mostra, curata da Giovanni Agosti e Davide Dall'Ombra, Testori apre dunque la sua casa a Pasolini e, dopo uno stenografico Autoritratto, si fa subito da parte per lasciare spazio a lui, l'autore italiano del '900 forse più conosciuto nel mondo. La rassegna ne offre un ritratto a tutto tondo, puntando su pittura e disegno, praticati negli anni 40 (allora sotto il segno di de Pisis soprattutto: in mostra c'è un suo disegno inedito) e poi ripresi nel 1964, senza però trascurare scrittura e cinema; tanto che otto suoi film sono proiettati per intero, in una sorta di macroinstallazione, in altrettante stanze del secondo piano.
Quasi tutti inediti, i lavori pittorici di Pasolini testimoniano un'ansia di sperimentazione pari a quella linguistica, che lo induce sin dagli esordi a servirsi di supporti eterodossi, diafani come il cellofan o "sordi" come la faesite. Continuerà a sperimentare anche negli anni 60, in opere che sono – anche – una mappa dei suoi amori umani e intellettuali, da Ninetto Davoli e Maria Callas ai fulminei ritratti seriali di Roberto Longhi (del Gabinetto Vieusseux e della Fondazione Longhi), omaggio – diceva – al suo "vero maestro".
A Mendrisio, per la cura di Paolo Campiglio, va in scena il rapporto – reale questo – tra Filippo de Pisis ed Eugenio Montale. Coetanei (del 1896), i due si incontrarono a Genova e Rapallo nel 1919 e 1920, poi nelle estati a Cortina. Li univa l'inclinazione di de Pisis per la poesia e, dal 1945, la dedizione a pittura e disegno di Montale che, come Pasolini, amava sperimentare materiali extrapittorici: rossetto, mozziconi, fondi di caffè, senza contare l'osso di seppia su cui nel 1972 tracciò un'upupa. Ma non basta: sono molti gli studiosi che hanno messo in evidenza la singolare consonanza tra le poesie dell'uno e le splendide Nature morte marine dell'altro; la passione di entrambi per la natura; la tendenza comune agli inventari di oggetti caricati di valore affettivo, simbolico. La mostra lo prova con gli splendidi lavori di de Pisis e le estrose carte di Montale, e lo riconferma con la copia autografata delle Occasioni, donata nel 1940 a de Pisis dal poeta, dedicandogli dei versi sul risguardo, e con Il beccaccino, 1932, il dipinto regalato a Montale dal pittore «per amichevole contraccambio».
Se penso alla piccola aula […] in cui ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un’isola deserta, nel cuore di una notte senza più una luce. E anche Longhi che veniva, e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di un’apparizione. […] Solo dopo Longhi è diventato il mio vero maestro. Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione.
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"Bologna 1940...Roberto Longhi sta tenendo il corso sui «Fatti di Masolino e di Masaccio». Un’apparizione, per il timido diciassettenne Pasolini.
Di fronte a lui, è un Maestro. Carismatico, ironico, curioso, privo di ogni pesantezza accademica. Quando spiega, è «sguainato come una spada». Il suo lessico è avvolgente. «Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione», racconterà Pasolini, il quale resta colpito soprattutto dagli artifici di cui amava servirsi Longhi per catturare l’attenzione degli studenti: proiettare riproduzioni dei dipinti di Masolino e di Masaccio in maniera serrata, accostandole in un involontario documentario.
Ad assistere a quelle lezioni, è il primo assistente di Longhi, Francesco Arcangeli. A lui Pasolini - non senza esitazioni e timori - mostrerà il suo «segreto»: i quadri eseguiti durante l’estate precedente. Sono oli su faesite e dipinti realizzati su supporti come carte, cellophane e sacchi. In quelle prove adolescenziali, motivo ricorrente è Casarsa, riscoperta nella sua bellezza rurale, abitata da un’umanità arcaica. Dinanzi a quegli immaturi esercizi di stile, Arcangeli pronuncia giudizi di apprezzamento: al punto che Pasolini inizia a scorgere per sé un possibile avvenire da pittore o da critico d’arte. Ambizioni che, ben presto, vengono disattese da Longhi, al quale il futuro autore di Ragazzi di vita proporrà, in una lettera del 12 agosto 1942, diversi argomenti da sviluppare per la tesi: una ricerca sulla Gioconda nuda (attribuita a Leonardo), uno studio sul pittore del Cinquecento Pomponio Amalteo e una ricostruzione della pittura italiana contemporanea.
Il Maestro accetta l’ipotesi più «militante». Ma Pasolini riuscirà a redigere solo i primi capitoli della tesi, smarrendone il manoscritto nel settembre del 1943. Da allora, si determina un allontanamento dalla storia dell’arte. Sorretto dalla necessità di aprirsi a una sorta di «espressività totale», Pasolini sceglie di sperimentare linguaggi diversi: letteratura, teatro, cinema, giornalismo. Eppure, per lui, la pittura resta sempre una presenza implicita. In particolare, sono costanti gli omaggi al Professore, di cui loda la sapienza nell’attenersi alla «logica interna delle forme»..."
(tratto da "Pagine corsare - 5 aprile 2012 - Pasolini pittore fragile di Vincenzo Trione)
L'essere povero era solo un accidente
mio (o un sogno, forse, un'inconscia
rinuncia di chi protesta in nome di Dio...)
Mi appartenevano, invece, biblioteche,
gallerie, strumenti d'ogni studio: c'era
dentro la mia anima nata alle passioni,
già, intero, San Francesco, in lucenti
riproduzioni, e l'affresco di San Sepolcro,
e quello di Monterchi: tutto Piero,
quasi simbolo dell'ideale possesso,
se oggetto dell'amore di maestri,
Longhi o Contini, privilegio
d'uno scolaro ingenuo, e, quindi,
squisito... Tutto, è vero,
questo capitale era già quasi speso,
questo stato esaurito: ma io ero
come il ricco che, se ha perso la casa
o i campi, ne è, dentro, abituato:
e continua a esserne padrone...
(P.P. Pasolini, La ricchezza, 1961, pp. 910)
Piero della Francesca, Madonna del parto - Monterchi
Recensione di Pier Paolo Pasolini al volume R. Longhi, Da Cimabue a Morandi, a cura di G. Contini, Milano 1973
Se penso alla piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui nel 1938–39 (o nel 1939–1940?) ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un’isola deserta, nel cuore di una notte senza più una luce. E anche Longhi che veniva, e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di un’apparizione. Era, infatti, un’apparizione. Non potevo credere che, prima e dopo aver parlato in quell’aula, egli avesse una vita privata, che ne garantisse la normale continuità. Nella mia immensa timidezza di diciassettenne (che dimostrava almeno tre anni di meno) non osavo nemmeno affrontare un tale problema. Non sapevo nulla di incarichi, di carriere, di interessi, di trasferimenti, di insegnamenti. Ciò che Longhi diceva era carismatico. Non vuol dire nulla che, per istinto, io fossi incuriosito in lui anche dall’uomo, che era un po’ incuriosito di me, e che provassi della simpatia profonda (credo anche un po’ ricambiata). Il rapporto era ontologico e negato assolutamente a ogni precisazione pratica. Forse anche per questo tutto ciò appartiene a un altro mondo. Solo in seguito ho tentato qualche ricostruzione: ma non è detto che abbia mai perso la mia timidezza fino al punto da far questo con reale senso pratico e con la reale capacità di rompere il diaframma idealistico che mi separava dal maestro. Dopo, si può dire che siamo diventati amici, anche se la frequentazione è stata sempre così rara. E anzi, solo dopo, Longhi è diventato il mio vero maestro. Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione.
Che cosa faceva Longhi in quell’auletta appartata e quasi introvabile dell’università di via Zamboni? Della «storia dell’arte”? Il corso era quello memorabile sui Fatti di Masolino e di Masaccio. Non oso qui entrare nel merito. Vorrei solo analizzare il mio ricordo personale di quel corso: il quale ricordo è, in sintesi, il ricordo di una contrapposizione o netto confronto di «forme”. Sullo schermo venivano infatti proiettate delle diapositive. I totali e i dettagli dei lavori, coevi ed eseguiti nello stesso luogo, di Masolino e di Masaccio. Il cinema agiva, sia pur in quanto mera proiezione di fotografie. E agiva nel senso che una «inquadratura» rappresentante un campione del mondo masoliniano – in quella continuità che è appunto tipica del cinema – si «opponeva» drammaticamente a una «inquadratura” rappresentante a sua volta un campione del mondo masaccesco. Il manto di una Vergine al manto di un’altra Vergine… Il Primo Piano di un Santo o di un astante al Primo Piano di un altro Santo o di un altro astante… Il frammento di un mondo formale si opponeva quindi fisicamente, materialmente al frammento di un altro mondo formale: una «forma» a un’altra «forma».
Gianfranco Contini – devo dire che è attraverso di lui, che Longhi mi si è rivelato il mio vero maestro? – ha raccolto ora in un volume di 1139 pagine stampate fitte, e che quindi normalmente sarebbero almeno il triplo, un’antologia degli scritti di Longhi, ivi inclusi i miei Fatti di Masolino e Masaccio, naturalmente; ne ha fatto la prefazione, arricchita da un compendio critico su Longhi (Cecchi, Contini stesso, De Robertis, Mengaldo), e da una magnifica Nota bibliografica generale. In una nazione civile questo dovrebbe essere l’avvenimento culturale dell’anno. Sì, ma l’Arte non è «controllo amministrativo della vita» (come suona la definizione canzonatoria affibbiata da Longhi ai «filistei» nel 1913!)
Devo dire che, a prima vista – sfogliando il libro, osservando «com’era fatto» e leggendolo qua e là – trovavo da ridire sul lavoro di Contini proprio a proposito di ciò su cui egli aveva previsto che si sarebbe trovato da ridire. Cioè la mancanza delle riproduzioni dei quadri cui i saggi di Longhi si riferiscono; la successività non cronologica dei saggi (quello che ho citato, del ’13, è uno degli ultimi) per cui il lettore è costretto a ricostruire molto faticosamente da sé ciò che più gli importa, cioè la storia dello stile di Longhi stesso; infine la struttura mentale che nasce da tale successività dei saggi, che è la struttura di una «storia dell’arte italiana» dal cui senso Longhi era profondamente (ma anche, bisogna dirlo, ambiguamente) alieno: così che il lettore è costretto a seguire ciò che in fondo meno gli importa, appunto quella «storia dell’arte italiana».
Contini non ha difeso nella sua prefazione con la solita eleganza ipnotica e la solita sorridente infallibilità, il proprio operato; sicché è il lettore stesso a dover sbrigarsela col grande testo, affrontandolo praticamente senza alcun conforto, alcuna preparazione e alcun metodo. È un’avventura. La prima chiave di lettura è ovviamente quella di «Longhi prosatore», o meglio «Longhi prosatore grande almeno quanto Gadda». E infatti la prima continuità di questo testo è dovuta proprio ai pezzi dove la grandezza di Longhi prosatore si manifesta in tutta la sua riottosa ispirazione. Il canone primo di tale prosa è la reticenza. Non si dimentica mai, neanche per un istante, nel leggere Longhi prosatore, il Longhi critico, impegnato, sempre molto rischiosamente, in ipotesi, scoperte, riordinazioni, attribuzioni: il cui fondamento è sempre la lettura del quadro, mai la lettura di documenti che riguardano il quadro, e che quindi possono dare, del quadro, informazioni oggettive. Nell’attribuire un quadro a un autore, o addirittura nel ricostruire l’intera personalità di un autore (come in uno strabiliante romanzo giallo), Longhi non è mai ricorso a dati esterni, filologici. Egli si è attenuto strettamente alla logica interna delle forme. Il rischio era dunque enorme, sempre. Di qui la cautela, e quindi l’ironia. Prodotto diretto, formale, nella prosa di Longhi, della sua reticenza (la cautela, appunto, più l’ironia, maieutica) è lo «scorcio». Tutte le descrizioni che Longhi fa dei quadri esaminati (e sono naturalmente i punti più alti della sua «prosa») sono fatte di scorcio. Anche il quadro più semplice, diretto, frontale, «tradotto» nella prosa di Longhi, è visto come obliquamente, da punti di vista inusitati e difficili.
A introdurre lo «scorcio» è linguisticamente un’ipotesi, o un’esortazione o una clausola finale (il c.d.d. del teorema, ma mai trionfalistico). Gettate là per caso, in fretta, in mera funzione di un’ipotesi, o a mera conclusione di un ragionamento, le descrizioni dei quadri (o, meglio, della realtà rappresentata da quei quadri) finiscono con l’essere di una esattezza lancinante, visionaria.
È proprio seguendo la vitale, esaltante, accanita, ossessa ricerca di Longhi – che consiste sostanzialmente nel far coincidere la verità critica con i vari aspetti che la realtà doveva assumere nei pittori lungo i secoli – che, piano piano si rivela il senso riposto di questo libro. E a questo senso va predicata certo una continuità: che non è però, soltanto, la continuità della serie dei risultati spesso supremi dell’espressività (della «prosa»).
La continuità del senso di questo grande libro di saggi consiste, io credo, in una «storia delle forme». Storia, intendo, proprio come evoluzione, ma nel senso puramente critico, vitale, concreto della parola. Tale evoluzione si presenta lentissima: i suoi passaggi hanno un ritmo quasi al «rallentatore», per quanto il loro susseguirsi sia logico fino alla fatalità. Ma ammettiamo che tali forme in evoluzione – anziché essere intraviste attraverso gli acmi descrittivi del discorso di Longhi, che s’ingorga quasi proustianamente nella «ricerca» – ci si presentassero, materialmente, attraverso le diapositive che ho detto a proposito di quel mitico corso bolognese. E ammettiamo che il proiettore potesse imprimere al susseguirsi di tali diapositive il ritmo dell’accelerazione più buffa: ecco che il senso della «evoluzione» di quelle «forme» apparirebbe sinteticamente, quasi in una inarrestabile consequenzialità meccanica.
Supponiamo poi che tali diapositive rappresentino, in dettaglio, la «forma» delle pieghe del manto della Vergine su un ginocchio o sul grembo; oppure la «forma» di un piccolo paesaggio del fondo; oppure ancora la «forma» del viso di un Santo o di un Devoto; e carichiamo nel proiettore, per prima, la diapositiva di una «forma» di Cimabue (o di Giotto «spazioso», o di Stefano fiorentino), e, per ultima, diciamo, una «forma» del Caravaggio. Facciamo in modo che la proiezione sia accelerata. Ed ecco, ecco, davanti ai nostri occhi, passare l’Evoluzione delle forme, come un meraviglioso film critico, senza principio né fine, eppure perfettamente escatologico. Il Longhi ancora ingenuo della «Voce», scrivendo ad Alba (il 18 marzo 1913) aveva già intuito tutto: «Ogni volta che l’arte raggiunge una saturazione di staticità, di corporeità, s’aggiunge, o combinandosi o imponendosi, la ricerca del moto. Molto comprensivamente, questo rappresentano i Greci di fronte agli Egiziani, i Gotici ai Romani, l’architettura del Quattrocento all’antica, l’architettura Barocca a quella del Rinascimento… E bene: il problema del futurismo rispetto al cubismo è quello del Barocco di fronte al Rinascimento. Il Barocco non fa che porre in moto la massa del Rinascimento… una tavola di pietra spessa e robusta s’incurva pressa da una forza gigante… Al cerchio, succede l’ellisse…».
Da allora in poi ad altro Longhi non ha accudito, in cuor suo, che a osservare tale «successione». Poiché si tratta di una successività disinteressata, assolutamente priva di utopie e di illusioni o terrorismi progressisti, e la finalità si autocostituisce e si autodefinisce, in sostanza, momento per momento, atto per atto, invenzione concreta per invenzione concreta, ecco che la critica di Longhi non può essere che di una estrema purezza, perfettamente contemplativa. Una sola, e irrelata, è l’illusione: quella della possibilità di esprimere indefinitamente la realtà, attraverso un seguito di drammatiche riscoperte (vedi il Caravaggio!): tutte le altre sono piccole illusioni storiche, più o meno servili, più o meno ipocrite. Le meravigliose capacità istrioniche di Longhi, le sue gioiellerie severe, non son nulla in confronto del suo lucido, umile ascetismo di osservatore del moto delle forme1.
Da “Storiedellarte” blog di storici dell’arte
Immagine dal film "La ricotta" - "Deposizione" di Pontormo (1525-1528 Firenze, Chiesa di Santa Felicita, Cappella Capponi)
Immagine dal film "La ricotta" - "Deposizione di Cristo" di Rosso Fiorentino (1521 Volterra, Pinacoteca Civica, Museo Guarnacci)
Jan van Eyck, "Ritratto di uomo con turbante rosso" (1433), National Gallery di Londra - Carlo Pisacane (Brabanzio) in "Che cosa sono le nuvole?"
Pasolini pittore
"...Un enigma. Ecco chi è il Pasolini pittore. Non ha niente in comune con l’apocalittico frequentatore delle malebolge del nostro tempo, che incontriamo nell’inestricabile Petrolio. Non ha nessuna analogia con il disperato cineasta che, inSalò, mette in scena il «male radicale», mostrando un’umanità corrotta dal consumismo, dominata dal potere. E non ha neanche alcuna consonanza con il polemista che, negli scritti corsari, dà vita a una requisitoria segnata da colori lividi, da un disarmato oblio della speranza.
Quando dipinge, Pasolini non ha rabbia. È un anti-avanguardista, lontano dalle decostruzioni cubiste. Talvolta, recupera echi espressionisti. Guarda a Bonnard. E, soprattutto, alla tradizione italiana: Masaccio e Giotto. E, poi, Carrà e Morandi. E de Pisis, di cui ammira la raffinatezza nel far sorgere un universo crepuscolare, lambito da vibranti trasparenze. Sulle orme di questi artisti, Pasolini compone fragili idilli. Elabora uno stile elegiaco, ingenuo, pascoliano, denso di richiami alle atmosfere delle Poesie a Casarsa. È lo stile di un artista che dice di sé: «Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore». Un linguaggio impolitico, lirico, che rivela sempre un profondo legame con il visibile, con temi «famigliari, quotidiani, teneri». Ogni quadro, per Pasolini, si dà come strategia per sfiorare la «lingua vivente della realtà». E anche come occasione per non cancellare la bellezza dell’incanto, dello stupore. Per sottrarsi alle miserie della cronaca. E risalire a un tempo lontano e purissimo.
Vi è audacia, invece, nella scelta di materiali e tecniche. Pasolini preferisce non servirsi di matite, pastelli e chine. Spesso, dipinge con la colla. A volte, definisce i volti solo con le dita sporche di colore. In molti casi, interviene direttamente su materie «difficili» come sacchi e cellophane..."
Vincenzo Trione "Il club de La Lettura"
Ho ricominciato proprio ieri 19 Marzo a dipingere, dopo (tranne qualche eccezione) una trentina d’anni. Non ho potuto far niente né con matita, né coi pastelli, né con la china. Ho preso un barattolo di colla ho disegnato e dipinto insieme, rovesciando direttamente il liquido sul foglio. Ci sarà una ragione per cui non mi è venuta mai l’idea di frequentare qualche liceo artistico o qualche accademia. Solo all’idea di fare qualcosa di tradizionale mi dà la nausea, mi fa stare letteralmente male. Anche trent’anni fa mi creavo delle difficoltà materiali. Per la maggior parte i disegni di quel periodo li ho fatti col polpastrello sporcato di colore direttamente dal tubetto, sul cellophan; oppure disegnavo direttamente col tubetto, spremendolo. Quanto ai quadri veri e propri, li dipingevo su tela di sacco, lasciata il più possibile ruvida e piena di buchi, con della collaccia e del gesso passati malamente sopra. Eppure non si può dire che fossi (e eventualmente sia) un pittore materico. Mi interessa più la «composizione» — coi suoi contorni — che la materia. Ma riesco a fare le forme che voglio io, coi contorni che voglio io, solo se la materia è difficile, impossibile; e soprattutto se, in qualche modo, è «preziosa». I pittori che mi hanno influenzato nel ‘43 quando ho fatto i primi quadri e i primi disegni sono stati Masaccio e Carrà (che non sono, appunto, pittori materici). Il mio interesse per la pittura è cessato di colpo per una decina o una quindicina d’anni, dal periodo della pittura astratta a quello della pittura «pop». Ora l’interesse riprende. Sia nel ‘43 che adesso i temi della mia pittura non possono che essere stati e essere famigliari quotidiani, teneri e magari idillici. Malgrado la presenza cosmopolita di Longhi — la mia Nous nemmeno pregata, allora, tanta era l’adorazione —la mia pittura è dialettale: un dialetto come «lingua per la poesia». Squisito, misterioso: materiale da tabernacoli. Sento ancora — quando dipingo — la religione delle cose. Forse una parentesi di trent’anni fa sì, che in questo campo, il tempo non sia passato, e io mi ritrovi, davanti a una tela, al punto in cui ho smesso di dipingere. Naturalmente tra i miei idoli (dimenticavo) c’era anche Morandi. Non posso allora tacere il mio immenso amore per Bonnard (i suoi pomeriggi pieni di silenzio e di sole sul Mediterraneo). Vorrei poter fare un quadro un po’ simile a un suo paesaggio provenzale che ho visto nel piccolo museo di Praga. Nel peggiore dei casi, vorrei poter essere un piccolissimo pittore neo-cubista. Ma mai, mai, potrò usare il chiaroscuro, né soffiare il colore, con la spugnosa purezza e perfetta pulizia che sono necessarie al cubismo. Ho bisogno di una materia espressionistica, senza possibilità di scelta. (Come si vede, anche i dilettanti hanno i loro appassionati problemi).
Scritto da Pasolini nel 1970 e pubblicato postumo.
tratto da:
Achille Bonito Oliva, Giuseppe Zigaina, Disegni e Pitture di Pier Paolo Pasolini, 1984, Balance Rief SA, Basilea
(ritratto di Ninetto, 1970)
«Ha sempre dipinto da poeta…Fin da quando l’ho conosciuto nell’immediato dopoguerra ha sempre sperimentato le più strane tecniche pittoriche, adoperando e mescolando tra loro i materiali più strani…»
Giuseppe Zigaina